domenica 3 aprile 2016

DOMENICO ALVINO. “THAUMA”, Loffredo Editore, Napoli, 2014 Roma, 13 ottobre 2015 (Thauma=meraviglia e mostro…) EPIFANIA DELLA DONNA-MIRACOLO. Entriamo dunque in questo universo, in questo Paradiso frammentato di creature diversissime tra loro, un prisma luminosissimo, accecante, di donne che purtuttavia, nella sfaccettatura abbagliante del cristallo, concorrono tutte a comporre un’unica deità, la divina grazia dell’Assoluto femminile, non dirò dell’Eterno Feminino di dannunziana memoria, no, poiché Domenico Alvino, pur avendo ben presente e quasi connaturata in sé ogni epoca della Storia e della cultura e della poesia, da quella classica, a lui ben nota e assiduamente frequentata (ossia con mente assidua, quasi assillante e assillata da un altissimo contenuto) a quella contemporanea, redige un raffinatissimo, ironico, struggente, oltremodo articolato “CATALOGO DELLE DONNE”, ovvero della Domina assoluta, dominatrice della sua mente, vista nella più terrestre concretezza, come nella più celeste ed impalpabile “angelicità”, se si potesse dire, donne che con la sua sola andatura, col solo incedere –come vediamo nella prima delle tredici sezioni in cui si articola il volume – riconferma il miracolo dell’esistenza di un essere ineffabile, impossibile da delimitare con parole o da definire, poiché è nella sua essenza infinito. Così Domenico Alvino, non volendo sottrarsi alle parole, ma al contrario misurandosi con l’impossibilità del dire un tema tanto elevato, si inoltra nella selva delle connotazioni e si incanta nell’incontro con una sconosciuta “ammantata d’alba” della prima poesia (noteremo mille volte certi versi lancinanti, come scoccati da un lampo celeste, simili a questo, nelle 117 poesie che compongono il volume, e non ci stancheremo di sottolinearli, epifanie di mistero) o con la sua donna d’elezione, che “viene per l’amore” e ha “occhi di cerve immemori”, o con la sua nipotina che dorme, che “vive nel respiro dei fiori”, ovvero con la ragazza abbracciata da un compagno, tanto che “stettero così/che tutto l’universo passò tra i capelli/ con le stelle che fluivano/le comete dentro i respiri trattenuti”, e ancora ne “IL nome” (23), il miracolo della nascita e del nome, appunto, “Aprile”, degno di colei che apre, che si apre la strada verso la vita, in uno straordinario, straziante dialogo, costruito con sapiente maestria, in cui ogni parola è un universo, ogni verso un mondo, meditatissimo andirivieni di frasi poetiche, eppure come solcato da una sua perfezione assoluta. Così ne “La cantante cieca” (24), dove la parola sembra frangersi, spezzarsi di fronte all’orrendo buio delle pupille spente, quasi farsi singulto a rendere l’orrore; brevi lampi di senso come in “Cuore di cenere” (25) o in “Eila” (26), “dedicata alla figlia che andava sposa” (spiegherà qui il poeta l’appellativo Eila, criptico per tutti, crediamo, tranne che per lui?), dove la frase poetica cela, nasconde, non dice, in un gioco continuo di velamenti e disvelamenti; così, nel gioco delle allusioni, delle sospensioni, delle attese in “Tu eri” (27), sprazzi di frasi, frantumi di senso, tuttavia fittissimi di significanza, dove sempre aleggia la donna, sempre invocata, immenso tutto ed essenza del tutto, un lampo, come “lampo è la vita” nella poesia (28) dedicata ad Adamo ed Eva nell’Eden, con cui si chiude la prima sezione del volume. Ora ci addentriamo col poeta nei luoghi delle epifanie, dove la donna aleggia col suo “volto flagellato” nella stupenda dell’incipit di questa sezione intitolata “Luoghi del miracolo”, incipit meravigliosamente inaugurato dalla “Oscura la linea degli Albani”, la poesia che porta nel sottotitolo “Luoghi in rovina, battuti dalla pioggia”, che Domenico Alvino indaga con occhi acuminati di lince, riportando sulla pagina le atmosfere misteriche dei riti millenari che si celebravano su quelle mitiche alture, sacre ai nostri più lontani antenati, la cui inquieta presenza sembra ancora aleggiare ovunque, anche se HIC ET NUNC è la presenza di una lei a rendere ogni cosa più viva e vera, come nella successiva che chiude la brevissima sezione, dove basta uno sguardo per accendere una storia d’amore ed è l’amore che fa da quinta dorata o sanguinante ad ogni verso… Ancora una “lei” senza nome, ma ben determinata, come “delimitata” dai versi, apre la successiva sezione intitolata “Il miracolo” (leggere pag. 37) e qui davvero l’epifania della donna è tangibile e salvifica come l’angelo della Resurrezione, intoccata tuttavia, lampo che accende di sé il giardino di Villa Borghese, come di sé accendono il pianeta le ragazze che cantano e danzano, quasi avessero attraversato i millenni sempre nella stessa attitudine, poiché qui si sente l’aura celeste degli antichi e vi si inoltra il poeta, tanto da scrivere un brevissimo testo in latino – così vicina a lui è quella cultura, a lui, cioè al docente di Lettere Classiche – come anche il francese non gli è estrano: ha nella memoria la misteriosa dama che con fare altero attraversava la strada in una troppo nota poesia di Baudelaire ed egli la fa sua senza alcuna imitazione. Così, il poeta ancora si incanta a descrivere la grazia delle ragazze che in frotta si disperdono come passeri in un giardino, o l’abbagliante nudità di una donna, o la chiarità del volto di una bambina, o “l’immatermateriata” madre, che fa prove di maternità, o per Moana Pozzi (pag. 49) dalla “bellezza richiusa”, donne dai visi come cieli che aggiornano o annottano, che semplicemente sono, esistono, senza quasi poter essere descritte, ineffabili nella loro essenza misteriosa, fatte di luce, (pag. 51), di sussurri, che si muovono nelle città incantate, attraversando “la luminosa polvere degli anni” nella omonima sezione, “immagini in riva al sogno” (56), dove una lei più che mai fatta luce incendia il tempo dell’amore, di un lui che la attende come “esca, fiammifero” a illuminare il giorno, lei che salva lui “affacciato alla balza” del tempo, lei che, creatura salvifica, conduce “ai confini paradisiaci” (in “Precipizio”, 60), benché lui sia tentato dal baratro, dal vuoto, dal nulla dell’esistere, di contro a lei che è capace col suo solo respiro di attraversare i millenni (61) insieme a mille altre donne nella sezione dei “Ritratti”, dove si inseguono figure femminili innominate, che camminano “con qualche guizzo di lupo” (65), che ballano “sopra le inquiete/ore dei crepuscoli sospesi”, che “nell’orgoglio gettano vita e canto” (69), che “inclinano a gauche” (70), suscitando atmosfere di frenetico impegno politico; o altre denotate da nome e cognome, come nella poesia “Lacerazione” (71) per Giuseppina Puglia (ce ne vorrà parlare forse il poeta?), o per Porzia, la sposa fedele di Bruto, l’assassino di Cesare, che si uccide per amore di lui mangiando carboni ardenti (73), ovvero per l’amica che tutti abbiamo conosciuto, Maria Zarattini, per molti anni, indefessamente e senza alcun tornaconto, se non quello della felice condivisione dell’atto poetico, operatrice culturale presso il Caffè Notegen (ormai da tempo purtroppo chiuso), la cui “umiltà del volto/si appartava in un sorriso” (75). Una sensualità sottile traluce dalle pagine, sensualità di cui è fatta ogni donna, sia quella “tutta capezzoli avidi” di uno spettacolo televisivo (83), sia nella sacralità del concepimento della vita, sia nel folle volo “dalle bassure iliache/a una melodia di nudo essere” durante l’atto sessuale, sempre tuttavia nella “menzogna dell’Amore”, anche se “la luce del desiderio ci accompagna”, come del resto la memoria di donne scomparse, di altre partite, fino alla “Furiae ex inferno aruptae” dell’omonima sezione (103), le donne-diavolesse il cui riso devastante apre la strada al niente, allo sbeffeggio pacato ma inesorabile dell’autore (103), donne divise tra quelle la cui “mano offre la rosa” e quelle che “nascondono il coltello”, che lasciano straziato e “pieno di pianto” l’uomo nel loro “chiudere e schiudere”, ovvero la donna pura e torbida come l’acqua (106), o ancora dal “sorriso colmo/di intime grazie/che ne sale un nugolo/ fino alla sete d’occhi/insaziati di guardarti”(107); donne emerse da una eternità di istanti, come la Clodia di Catullo qui rievocata con l’identico, struggente carico d’amore e d’odio (108 e 109), anche nell’ironia che ricorda la grande poesia satirica di certi classici, come Giovenale (la satira “Contro le donne”?) nella poesia “Tra i capelli ritinti” (110), fino al sarcastico poemetto “De pipparolibus allisque comparibus”, di cui solo l’autore ci potrebbe svelare la chiave, se volesse, non soltanto una goliardata poetica, poiché l’assurdo è del tutto evidente nella foia che prende i personaggi agitantisi sulla scena della poesia e della vita, puttane quindi, magnaccia, mariti cornuti e giovani amanti, nella pantomima triste e vecchia quanto il mondo, divertita e divertente tregenda di diavoli cornuti, in una oscenità da Basso Impero o da Suburra perenne, ovvero degna del cubiculum di Caligola, della Roma di Messalina di cui pare abbia ereditato lo stile la Puttana innominabile qui tanto efficacemente effigiata e dannata per l’eternità a essere considerata la “pipparola serva di pipparoli”. Eccoci dunque alla sezione “Carni chiuse”, dove l’eros si fa vieppiù violento ed esplicito, benché la frantumazione del verso renda tutto come frammentato, quasi la riproduzione di un sogno, apparentemente insensato, eppure quasi tangibile, più vero del vero. Sogno, immaginazione, dialogo muto tra esseri che si infiammano di Eros: ogni verso è una scheggia di realtà che occorrerebbe meditare ed è lo stile, qui, nelle poesie più tarde, a rendere con forza la potenza del senso. Così il poeta si dibatte tra “Il nero delle carni chiuse” (123) e “Il negarsi della donna” (125), “La solitudine patita a opera delle donne e in famiglia” (126) con il sospetto, appena un’ombra malcelata di misoginia, già da noi notata, ma non esplicitata, come nella grande tradizione classica, certo dovuta a vera sofferenza d’amore, a incomprensione, più che a odio, livore di misogino vero e proprio, o rancoroso desiderio di rivalsa verso colei che si è negata all’amore; si dibatte, dicevamo, tra la brama della “donna impenetrabile” (127) dove il gioco leggero e ossessivo dei pronomi personali che si rincorrono da un verso all’altro rende assai bene l’incomunicabilità tra i due amanti, di cui lei è l’ “Inattingibile” (129), sempre e comunque “In fuga”, concetto reso benissimo dall’acceso sperimentalismo, quasi da “Novissimo”, come ne “Il cuore addosso” (130), benché risalente al 2011, ma sempre attuale. Si dibatte dunque il poeta nel “Dolore” (131) “dell’innamorato all’amata che lo ricusa”, un dolore fatto di cemento, ma “se lo fai uscire poi/tutto crolla” però talvolta “Amore presta ali” (132), sino ad arrivare alla definitiva “Cose ed ombre” (133) ossia “Per una giovane malamente abbandonata” che chiude la sezione, lasciandoci ad immaginare la misteriosa sorte della fanciulla, la cui anima “dorme sotto gli ulivi” (133). Tutta dedicata invece al dolore della perdita è la successiva sezione “Addii”, colma di una infinita malinconia per le donne amate e perdute, la caduta del desiderio, il “vuoto rapido della bellezza” (139) e anche qui versi spezzati come singulti, parole macerate nel ricordo o nel nulla, gesti interrotti, ricordi smozzicati, l’aria “appena smossa sotto i cipressi” (140) e “nessun gallo a cantare” (141) in una simbologia che costruisce il senso profondo della mancanza di una lei inesprimibile perché inafferrabile, “legata alle rondini” (142), ovvero “che danza al passo delle nuvole” (ibidem) (“Alle rondini”, ovvero “Al cinema, lì davanti, due”) e che “non è come la luna” (144) e ha “cuore di cenere” (146) ed è in definitiva “donna domina domus prima/et quies ultima degli stremati/tempi” (147), emistichio che dà anche il titolo al volume, colei che nonostante tutto, il dolore per il mancato amore, la fuga, la perdita, accoglie come dimora primaria, estremo rifugio ai mali del mondo. Infine, la conclusione del volume, con le ultime tre sezioni, “Il pagliaio vuoto”, “Sogno” e “Canzoni”, dove ancora emergono strazianti figure di deserto e abbandono, si tratti della donna “lasciata attendere, che ardeva” (151), della sorella morta, di quella arrivata “tutta sporca” (155), o di quella “diventata ombra “che sbianca/a vincere la luce” (156), o ancora colei che “poiché tacque/si inveterarono le ossa”, con una delle tante citazioni latine che abbiamo tradotto, care al nostro autore, ovvero della novizia che lascia il mondo per il convento (160); di colei per la quale si rifiuta il Paradiso, se non la vi si trova (citando stavolta la “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni) (162); e ancora di Desdemona (in francese e in italiano) che Otello ha cancellato dalla vita (164), a cui sono dedicate due poesie, di Beatrice e di Laura… Donne ideali dunque (173), donne-luna, Leucothea la Bianca, la donna dell’ultima volta a Madrid, la fanciulla che sorrideva al poeta “in un sottecchio”, mentre la madre la pettinava; la ragazza lasciata da un parigino innamorato che ne piange; la principessa sterile; l’alunna che ha preso il velo; donne simili a rugiada, e anche una poeta come Giovanna Sicari, purtroppo prematuramente scomparsa; e un’Alida, e Sonya, la nipote del poeta, ed Eva con accanto l’eterno Adamo, fino alla chiusa fulminante del “Correre da lei”, quasi fosse il fine ultimo dell’esistenza di ogni uomo. (Francesca Farina)