martedì 27 dicembre 2016
"CASA DI MORTI", IL ROMANZO DI FRANCESCA FARINA. RECENSIONE DI DOMENICO ALVINO.
Francesca Farina
Casa di morti.
Una sepoltura di grandezze
Dalle nostre ossa imploro che erompa ed insorga un ultore
che a ferro e fuoco persegua i dardanei bifolchi
ora come un tempo e in qualunque altro tempo
le forze si diano, e lidi con lidi, onde con onde
armi con armi combattano essi e i nipoti.
(Virgilio, Eneide, libro IV, vv. 625-629 - Trad. D. A.)
Già questo esergo apre la prospettiva dell'opera come una rivendicazione storica: il ridisegno d'una Sardegna come casa ove ci fu il fervore di una grande vita, il cui ricordo fu poi lasciato scolorire nel tempo, ed essa si ricoprì d'un'ombra di morte. Sicché ce ne vuole per rimuovere quest'ombra o scavarci dentro alla ricerca dell'antico fervore. Ne consegue un libro ponderoso, un romanzo che si scuote sotto il peso d'una storia millenaria, con tutti i suoi carichi di cultura e avventura, altezze e bassure, e perfino abissi di dolore e vulcani di eroismi e d'ingegni, ivi sepolti e obliati .
La narrazione inizia con l'escavazione di un paesaggio fatto di aridume, cose disseccate, valli divelte dalle quali si levano monti brulli e colline simili a monti ritratti, affetti di nanismo vorticoso. Su un simile paesaggio l'occhio si aggira alla ricerca di qualche anima che la civiltà vi abbia perso o cancellato: qualche casuccia, un orto, qualche strada che discende o s'inerpica vorticosa, volgendo seco prospettive di paesaggio cangianti ad ogni svolta, sicché ti viene l'ansia d'uno disperso in orizzonti sconvolti. La flora si direbbe che consti tutta di specie pressoché ànidre, quali lecci, malve, cardi e trifogli , eroicamente avvinte alla vita in gruppi stenti che faticano ad esser boschi. Gli uomini? Radi come i centauri e i satiri, quei pochi paiono discendere dai cervi, ché “dal sangue o dagli amori di una cerva” si diceva che fosse nato il Paese . E scavando scavando ecco che si trova un'origine Iliense, vale a dire troiana , con invadenze cartaginesi, romane, vandaliche, mauritane, che, persecutorie e fameliche, seminavano terrore spingendo gli Iliensi a riparare in caverne e cunicoli insieme a cervi ed ibis. E si trova che in queste sepolte atmosfere, nasce una religio si può dire istintuale che, mossa dal bisogno, mette capo alla dea Acqua, che adoravano presso querce e fonti – rare, queste, e per lo più sprofondate sotterra, sicché la ricerca era di una difficoltà disperante. Insieme ed anche attraverso questa religio si sviluppa in quegli antenati un carattere diffidente e riottoso, che si manifesta pur nella costante ricerca di comprensione ed amore in chiunque capitasse loro d'imbattersi.
La consuetudine ad una vita ipogea sviluppa in loro la tendenza ad assimilarsi ai morti, se non ad ombre più morte dei morti:
“Che importanza avevano infatti i vivi, se non erano in fondo altro che ombre, più morti dei morti?”
L'idea della vita ne viene dunque pressoché cancellata e sono i morti a resistere nella civile immaginazione, e ad essi son dedicati luoghi, riti e memorie, tutto come rinchiuso in una sacra pietas, quasi trascorrente in una mistica fede. Così chiusi alla luce della vita, finiscono col disegnarsi ombre, e di queste...
“... avevano consistenza, essendo le donne fragili, magre ed affamate, i bimbi scarni e deboli, gli uomini sofferenti e malati, resi feroci da tanta miseria, rabbiosi da tanto sangue, fatica e dolore.”
Continuo è l'intervento della poesia, attivata da dispositivi tecnematici di grande potenza operativa, pure in una resa espositiva quanto mai delicata, come si osserva in questo brano, che fa quadro di tale miseria:
“Pane di dolore infatti si mangiava, acqua di sangue si beveva, latte di morte si subiva. Il latte era nero, avvelenato come un frutto atroce, poiché veniva strappato di nascosto a un padrone vorace che ne calcolava anche le gocce e di esse chiedeva conto e bisognava renderne ragione; ad aprile, tanti erano i litri; a maggio, tanti; a luglio, tanti... E il padrone sapendolo, come lo sapevano tutti, servi e padroni, tanto si aspettava, da ogni gregge, ogni mese.”
Pur con dispositivi tecnematici di grande semplicità – come sono quelli del mangiare, bere, nutrirsi, far di conto – si osservi qui un'operazione di poesia di grande potenza: quella della performance, consistente nell'eseguire (to perform), in termini testuali, quasi l'immagine fisica di ciò che si dice o si descrive o si racconta, con procedimento o fonosimbolico (qui il prevalere della vocalità aperta [a>e] a dar figura delle bocche affamate) o musicale (qui il degradare di questa apertura (a > e > i) a rendere il rassegnato richiudersi di esse bocche sul vuoto delle viscere) o seriale (qui il succedersi in ordine d'importanza vitale di pane (fame), acqua (sete), latte (a soddisfare, in mancanza delle prime, fame e sete insieme), ritmico (l'alternarsi di dattili, trochei, giambi e anapesti in guisa da rendere il succedersi, con tragica regolarità, di stenti e sventure).
C'è poi, ad emergere, non direttamente, ma sempre attraverso l'operatività della poesia, la pietà per le bestie, le pecore soprattutto, costrette a far gregge, stringendosi tra loro per resistere alla fame, alle intemperie, ai maltrattamenti subiti dai pastori, ai soprassalti inferti loro dai cani, “accidiosi e tuttavia feroci, abbaiando loro con furia contro il fronte mobile della torma che si sbandava, arrancava, belando come se piangesse (struggente era infatti quel lamento, quasi voce umana, di bambino in gran pena...)”. Gregge che viveva dando insieme da vivere e, per un istinto atavico, si avviava e procedeva “senza mai scostarsi dal pastore, ma tentando tuttavia di fuggirlo, senza vederlo e senza sentirlo...” . Anche da queste parole spero si evinca la potenza operazionale della poesia: essa “accende un buio”, quello nel quale erano dannati a vivere pecore e pastori: nemici fra loro e insieme legati da una reciproca dipendenza, che dava a entrambi l'unica possibilità di vivere e sopravvivere. Ché “in quel Paese anche la speranza era morta”. La parola stessa “s'era ridotta alla rimasticatura di qualche sillaba bastarda vestita a nuovo, troppo recente per essere credibile e fiera” . L'esito operazionale di questo tecnema di reductio è impressionante: l'indigenza atavica e senza speranza esonda dalle cose e invade la lingua riducendola a relitti spersi d'altra lingua pregressa e dimenticata. E il diegema evidenzia che ciò tocca alla parola “speranza”, proprio alla speranza, dalla quale solitamente si sviluppa quella fede certa nel momento successivo su cui è innestata la possibilità stessa della vita! E solo poco oltre, la speranza si trascina dietro parole di pari entità, come sono amore, piacere, gioia, il che genera un riflusso di quella sorte rovinosa, dalla lingua, di nuovo alle cose della vita, sulle quali cala un cielo buio e definitivo, in cui sprofonda l'idea di futuro e quella delle nozze, rinsecchiscono le festività, e il caldo dell'estate si trasforma in predatore di bambini.
Si osserva poi un tragico rispecchiamento di sorte tra la figliolanza delle bestie e quella degli uomini: agnelli strappati alle madri e barbaramente uccisi senza nessun riguardo al loro pianto (“la vendita del pianto degli agnelli” tìtola Francesca), e agnelle risparmiate perché figlino a loro volta fornendo altri agnelli e agnelle cui tocca la stessa sorte. E così i figli dell'uomo: i maschi tenuti alla fatica agricola e pastorale, “infelici e muti e pieni di rancore”; le femmine mandate a studiare “in città lontane ostili e perigliose”. E ciò, nonostante che essi, da “liberi guerrieri”, si fossero ridotti a un popolo di pastori e contadini, seppellendosi in una solida ignoranza perfino di sé e della propria storia, ché senza questa il sé è cieco e muto, specie quando essa si reca nel grembo una luminosa mitologia come quella della loro origine: vi si ritrovano nientemeno che Sardus, figlio di Ercole e mitico loro antenato, dal quale aveva preso il nome la loro isola, e il figlio di Apollo e Cirene, Aristeo, che aveva loro insegnato l'arte casearia e l'apicoltura. Una realtà contraddittoria questa dell'isola, e pur così peculiare: la sua è una storia dimenticata, eppure se ne porta in seno il lume, che sembra trovi riflesso in un miracoloso trascolorare delle tinte d'ora in ora. Può essere dunque che per ogni sardo, e per Francesca, il problema sia similmente di viverla questa realtà, innestarsela a pelle, e poi con essa addosso dimenticata andare via leggeri, altrove, perché tanto è in te e trova i suoi riflessi nelle cose che fai, negli amori ed umori, e imprese che sogni e che compi. Perciò credo che viga, in Francesca, un amore nostalgico e senza speranza, organico e terribile nel suo spirito ferale, ma anche origine e natura di questo romanzo, peculiare anch'esso, come romanzo di una terra che ha lavorato l'animo di lei, come grido d'amore e di sprezzo, d'ammirazione e di odio, di attrazione e distacco.
La si veda, questa realtà contraddittoria, anche nei Barones – parola che, per quanto io abbia potuto intendere, non è il nome della nota classe nobiliare dei baroni, ma il cognome di una famiglia dal sussiego nobiloide, che induce la pretesa di dominio, non solo sul villaggio ma anche sul cimitero, con lapidi altisonanti dove si definivano “primo sangue di Bithia e stirpe degli dei”, non per meriti che avessero verso la comunità, ma in quanto s'imponevano quali dèi malefici, tali da incutere terrore, e ai quali si dovevano “tributi di sangue” . Una religione dunque, ma una religione consustanziata di odio, al cui centro erano loro, con le loro donne in qualità di vestali, fossero esse maritate o rese vedove da omicidi, o perennemente nubili, per i divieti di sposare uomini di ceto inferiore.
Farina chiama a raccolta la storia, in questa sua storia d'uomini e cose, a dire da che cosa siano essi prodotti, da che origini poderose, ed anche a far memoria di cose scomparse, di ingredienti e modi della bellezza antica – quali colori, gioielli, costumi, qui disegnati con tanta cura proprio perché non più godibili; ingredienti e modi d'una bellezza maturata di secolo in secolo, col concorso di popoli diversi, Cretesi, Troiani, Fenici, Assiro-babilonesi, che si avvicendarono nell'isola, i Troiani specialmente, dai quali presero essi perfino il nome di Iliensi, benché fossero più vicini a Didone che non ai Troiani .
Origini grandiose dunque, che spiegano la stessa positività di un costume, che si ebbe in antico e permane a volte tuttora, quello di divinizzare le cose, che parrebbe una volgare e vana superstizione, mentre è il modo o uno dei modi più potenti di stabilire valori umani e civili, che rendono possibile e sorreggono la stessa convivenza. Così finisce anche a dire quid sit civilitas et quomodo mutetur in tempore . Ma ad accimare in questa narrazione appassionata, sono, più che momenti sereni, le crudeli malversazioni subite dai popoli che vi posero dominio, dai Romani, per esempio, come appena ne fulmina la frase latina, e, tra essi, a far di peggio, sono i personaggi più illustri per doti ed imprese, quali Cesare, Pompeo, Augusto e, più ancora Cicerone, l'oratore dal gran cece a sconcia-viso, “eccelso maestro di menzogne, che procurò infamia agli incolpevoli isolani chiamandoli latrones mastrucati ... e ben fu che alla fine pagò la giusta mercede con una morte indegna, avendo mozzato il capo e le mani dai pretoriani di Antonio”. Padroni, questi, dell'isola, che non vi misero mai il cuore, se la scambiarono come donna di bordello, come anche altri che vi successero di secolo in secolo, sempre più feroci e addirittura ignari, non solo dei bisogni e delle sofferenze del popolo, ma perfino della lingua, come dei luoghi stessi e della natura di quella terra. Da un'idea di ribelli, quali erano costretti ad essere gli isolani, i dominatori devono aver tratto quella di banditi capaci di delitti d'ogni sorta e quindi da tenere a freno con leggi spietate, alle quali neppure si sognavano di assoggettare se stessi .
A un certo punto, da storia dell'Isola il romanzo volge a storia di stirpe, a cominciare da un antenato che fu nel contingente sardo alla guerra di Crimea (1855) . E questo fatto dell'antenato che volge a storia di stirpe senza che ve ne sia traccia sul piano referenziale, mette a soqquadro il nostro piano ragionare con la conferma che, in questo libro, costante è la presenza della poesia. Magari a volte se ne sente il solo respiro, che solleva certi moduli stilistici ad una tale elevatezza da meritar l'onore di un titolo loro proprio: per es., per il brano incipitario di pagina 64, La partenza o L'addio, titolo che sommuove la memoria di altre pagine esemplari, come quella dell'addio ai monti ne I promessi Sposi; o a dar fiato a certi incipit suggestivi, come quello a pagina 88: “Qui invece nel vasto Nord”, ove però la poesia già ha qualche chiaro armeggio; ma c'è poi l'impiego vero e proprio di tratti testuali o extratestuali a mo' di tecnemi che attivano autentiche operazioni di poesia, come si è già veduto di sopra nel brano di p. 8, o ne sia semplicemente apprezzabile il tentativo. Proprio così avviene in quella stessa pagina 88, in prosecuzione del periodo iniziale già indicato: vi si congegnano tratti di tempo, non nel loro proprio ordine consecuzionale, ma alternandoli secondo una pura e semplice ragion poetica, in modo da attivarvi autentiche operazioni di poesia.
Da uno studio appropriato di critica operazionale, potrebbe venir fuori che ha valore tecnematico, e dunque di stimolo all'operatività della poesia, non solo la conoscenza, già di per sé ammirevole, della terminologia di ogni arte e mestiere, ma anche quella sua pronta capacità di render viva l'atmosfera di frontiera, quale l'avesse personalmente vissuta, con descrizione dello stato d'animo dei combattenti che è altro e più dell' “indiretto libero rivissuto”, che fu proprio della letteratura realistica di fine Ottocento, specie nella sua versione veristica. Il risultato – come in particolare si osserva a pag. 72 – è quello d'una delle più compiute, efficaci ed alte descrizioni della guerra, oggettivamente e psicologicamente.
Quel suo dire dell'antenato sempre vicende di guerra, onorandone il valore quale componente sua naturale (non aveva fatto altro che le cose di sempre nella continua lotta contro gli elementi della natura a difesa dei suoi greggi e delle sue modeste proprietà), potrebbe dar ragione all'ipotesi del romanzo indirizzato a rivendicazione storica dell'isola, o potremmo dire che questa appunto sia una delle operazioni di poesia meglio riuscite. Ne può essere conferma, in sede referenziale, il dire in esplicito, del bisnonno, che...
“la ferocia di Crimea e il sangue che scorse sulle rive della Cernaia [come anche – aggiungiamo noi – le due medaglie avute dai Francesi e dagli Inglesi] mutò per sempre la memoria del luogo rendendolo da infame glorioso” .
Sembra intravedere, nei gangli della narrazione, che la Sardegna – e, in una con essa, la famiglia cui dà origine il nonno della Discendente , sposando una nobile fanciulla, che fu “ombra prima di essere ombra” – abbia avuto parte anche nella nascita dell'unità italiana, il che confermerebbe ancora, insieme all'aura epica in cui è rappresentato l'animo sardo anche nella normalità quotidiana , la prospettiva della rivendicazione storica, confermata anche da “l'acerbo rimpianto che avrebbero provato i discendenti, lontani dall'isola diletta” . Né ciò esclude il franco riconoscimento di quelli che sono gli aspetti negativi della realtà isolana . Aspetti che talvolta sono d'una tale tragicità da esser solenni, come la rappresentazione dei morti sulle lapidi dei cimiteri, ove appaiono...
“...quindicenni dai visi attoniti, patiti, minati dalla malattia ma selvaggiamente attaccati alla vita e strappati da essa, come trascinati per i capelli e gettati nella polvere opaca del sepolcro” . Morti, poi, che “non smettevano di far parte della vita della famiglia ”
[…] che
“tornavano sempre, si sedevano presso le mense nel giorno del loro anniversario e si cibavano con gli occhi di quelle vivande preparate in loro memoria” .
E tuttavia ciò non cessa d'essere un dato negativo, in quanto ne sortisce il fatto che quella gente crede nel ritorno dei morti, e tutto organizzano in tale prospettiva, sicché il vivo della loro vita impallidisce e smuore sotto il dominio di quell'idea di morte che li sovrasta, e perfino il sorriso scompare dai loro volti, insieme ad ogni gioia e ad ogni piacere. Soltanto i morti davano messaggi di vita e soltanto in loro si riponeva la fiducia, in quanto ci si poteva parlare e intessere racconti sulle loro epifanie . E, ciò che è peggio, vi erano i “nati morti”, cosiddetti perché vivevano come nascosti e muti, e dimenticati .
E qui si entra nella fiaba, altro gesto che compie la poesia, onde vien redenta l'amata isola, tramite l'impiego tecnematico delle sue figure, degli eventi fantasiosi, come questa nascita in forma del suo contrario, che è la morte. Nascere nel modo della morte. Ché questo viene alla mente in primo luogo, oltre ogni paradigma di ragione, com'è il mondo della fiaba. E subito se ne ha conferma in nominazioni di persone fantasmatiche quali “il Prozio della Terra Argentata”, “la Ferale Fanciulla”, la morte dei “Fanciulli inconosciuti”, “la follia celata dello sposo”... E in accordo alla fiaba sono anche altri dati, o caratteristici d'essa – come l'amor pecudum bestiarumque, per cui gli animali son tenuti in gran conto ed esposti sempre a maraviglia, immersi come sono sempre in una luce suggestiva – o difficili da inserire nel quadro d'una normale accadenza, come le magiche descrizioni di luoghi lontanissimi e da lei, Francesca, mai veduti, o narrazioni altrettanto dettagliate di lontani antenati, di cui non pare che disponga di trattazioni biografiche o autobiografiche .
Fiabesche in certa misura sono anche le storie, come stesso i ritratti che costellano il libro e poi si susseguono continue verso la fine di esso. La prima storia è quella del prozio Bathor, ucciso dal suo servo-pastore e che da un ritratto sembra fissare i fanciulli con le sue pupille languide. Un'altra è del padre della Discendente che, avviato alla guerra, ne fu distolto dalla nuova d'una tragedia familiare: così sono essi presi – dice la poesia – tra una tragedia e l'altra. Una terza è del “leggendario Padre Solle” che, da cappuccino fattosi bandito e cantore, ammaestrava come Orfeo bestie e uomini nei boschi, con versi “che paion esser foggiati su una mola”, così in traduzione, ma in sardo è “ghettàtos in su molle”, con quel “ghettàtos di ben altra potenza operativa.
La quarta storia è del Nonno, alla cui dipartita cento mani si alzarono disperate a strapparsi chiome, perché aveva a sua volta alzato le mani armate di corda su di sé per trarsi via “dalla fossa oscura del mondo”. Di lui son narrate anche le esequie, spoglie, senza il rito sontuoso che era di costume , perché morto suicida, e s'era tolto via dal respiro di Dio. E con ciò si capisce anche un'altra funzione che finisce con l'espletare questo libro, e che è quella di studio d'usi e costumi sardi.
La quinta storia è quella in cui la narrazione “discende alla Discendente” la quale, in un sogno ricorrente torna alla sua adolescenza, a tavole colme di cibi succulenti, tra persone ed ambienti di vario genere, e dove incontra quella che definisce la sua peggiore amica, che però subito si dilegua nelle ombre del mondo.
La sesta è la storia della Madre, vissuta – e così morta – nello sprezzo dove sempre fu relegata dall'orgoglio nobiloide delle cognate, come ombra loro molesta, non per sue incapacità o colpevolezze, ma solo perché entrata nella casta provenendo, senza nessuna dote, da una famiglia umile e “dal piccolo, spregiato” villaggio di Laus, con la Bisnonna materna (storia settima) che ne venne a piedi, con un suo fratellino per mano, a servire “per il ventre”, cioè per il solo mangiare e senza altra paga. E tuttavia fu colma di forza vitale, di gioia di esistere, sempre sorridente, poetessa orale dalla voce melodiosa.
E l'ottava storia è della Signora Preziosa presso la quale ella serviva, signora sempre a letto in una spensierata dimenticanza delle ricchezze che la sostentavano, “facendo colare l'oro del tempo nelle stanze dalle imposte accostate a schermare le unghiate della luce”, nonché la voce dei venditori di ramazze e padelle di rame che, per quanto disperati, “cantavano meravigliosamente con voce nasale e cuore sperso” .
La storia nona è quella del fratellino che la Bisnonna si tirava dietro, una storia di fame ed abbandono, di vestiti smessi e malandati che lei raggiustava a sua misura, così dimostrando stupefacenti abilità di cucitrice e ricamatrice, completando la sua figura di serva tuttofare, su cui si spensierava la Preziosa.
Decima storia, quella dell'uomo che l'avrebbe dovuta sposare, l'uomo al quale a vent'anni fu predetto che avrebbe avuto quattro figli e sarebbe morto a trent'anni. E così fu, che parve “un destino marchiato a fuoco nel suo sangue”.
Segue la storia di Janua (storia undicesima), una dei quattro, “piccola dea d'acqua”, che ereditò le abilità materne, “ammantata di silenzio” e, per una febbre che le devastò polmoni e bronchi, fu la prima della famiglia ad abbandonarsi alla pace che regala la follia.
Dodicesima è la storia della sorella Josefa, che vagava per il borgo “come una puledra selvaggia, cercando i calzoni di ogni uomo”, danzando e mostrando i seni lattei o sollevando le sottana fino alla cintola. Era la madre poi a riprendersi tra le braccia la figlia insensata, tocca da passione frenetica quasi di origine divina, finché, allontanata da casa, fu “chiusa in un luogo di eterno lutto”.
La tredicesima è d'un remoto pronipote, cui toccò la follia nella forma del piccolo male, finché non ebbe la stessa morte del Prozio e del Nonno.
La quattordicesima fu la storia di Nina, terza sorella, che seppe, dal matto del villaggio, la morte del suo giovane promesso sposo per un male sconosciuto. Dal che, poco dopo, anche lei scese nella tomba.
La Discendente infine narra di sé e di altre povere creature dalla vita eroica, benché educate ai millenari riti dell'ossequio ai maggiori, senza alcuna concessione al bello, al piacevole della vita, come fossero nati senza desiderio, per sola opera e virtù di un caso insensato. Trattati come oggetti cui nulla fosse dovuto, crescevano con il nulla scavato nell'aspetto, eppure nell'età adulta tiravan fuori dalla stessa disperazione un coraggio leonino, pur senza che nessuno ne rendesse loro merito. Tutto nella risonanza orgogliosa dei nomi di casta, non solo nel paese dei vivi ma anche in quello dei morti, dalle lapidi altezzose. Tutti barbari, conquistatori e pirati, benché da loro sortissero anche eroi del Risorgimento, quali Alfredo Mameli, autore dell'inno nazionale, ed Efisio Thola fucilato a trent'anni per aver esposto un foglio patriottico. Loro erano a splendere, non i “signori”, di cui pure erano le cariche più importanti, di medico, di farmacista, di preside, di veterinario, niente altro che “morti di fame” al loro confronto.
Tutta questa storia di storie, anche attraverso la bellezza dell'isola e le sue origini mitiche, approda a ritratti di personaggi ognuno con le sue malie, così come avviene poi nella storia del mondo, che ognuno è fatto d'essa e si esprime in essa. Ultimo, il ritratto della Discendente, in cui si discioglie il pianto dell'infanzia non vissuta, del difficile rapporto con la madre. E narra la sua scoperta della scrittura, l'affaccio al pianeta del sesso, la lenta e faticosa vittoria sulle ombre paurose che la ossessionavano, fino a prendersi cura della zia Memme che, vecchissima, vagava sola per le strade in cerca di cibo. Suo solo rifugio erano i libri, i soli che ambisse a possedere.
A dare assaggio dello stile davvero ammirevole di Francesca, leggo appena un brano di questo romanzo poderoso, fra tanti che meriterebbero, e che traggo da pag. 102 :
«Nelle loro pupille, il sogno dei giorni che per la madre bambina non sarebbero mai giunti, dei pomeriggi in corsa tra le strade sterrate del Villaggio, nella polvere celeste dove si levava ogni tanto un angelo a salvamento dell'eccessiva violenza delle lotte; delle sere impazzite di rondini e cicale, a cui si mescolava il dolciastro odore delle malve, simile al miele, quando le urla dei ragazzi in gazzarra trionfavano sulle stelle, sfrondavano gli immensi ippocastani, i noci spaventosi e intatti, scagliavano ciottoli come proiettili di piombo, tornando al desco soltanto dopo mille infuriati richiami di mille madri, le quali da mille balconi e poggioli protesi sulla notte li cercavano, mentre essi frenetici nel buio ancora in corsa si sfidavano come Ettore e Achille nascosti invano tra le pietre e le fionde.»
Domenico Alvino
domenica 3 aprile 2016
DOMENICO ALVINO. “THAUMA”, Loffredo Editore, Napoli, 2014 Roma, 13 ottobre 2015
(Thauma=meraviglia e mostro…)
EPIFANIA DELLA DONNA-MIRACOLO.
Entriamo dunque in questo universo, in questo Paradiso frammentato di creature diversissime tra loro, un prisma luminosissimo, accecante, di donne che purtuttavia, nella sfaccettatura abbagliante del cristallo, concorrono tutte a comporre un’unica deità, la divina grazia dell’Assoluto femminile, non dirò dell’Eterno Feminino di dannunziana memoria, no, poiché Domenico Alvino, pur avendo ben presente e quasi connaturata in sé ogni epoca della Storia e della cultura e della poesia, da quella classica, a lui ben nota e assiduamente frequentata (ossia con mente assidua, quasi assillante e assillata da un altissimo contenuto) a quella contemporanea, redige un raffinatissimo, ironico, struggente, oltremodo articolato “CATALOGO DELLE DONNE”, ovvero della Domina assoluta, dominatrice della sua mente, vista nella più terrestre concretezza, come nella più celeste ed impalpabile “angelicità”, se si potesse dire, donne che con la sua sola andatura, col solo incedere –come vediamo nella prima delle tredici sezioni in cui si articola il volume – riconferma il miracolo dell’esistenza di un essere ineffabile, impossibile da delimitare con parole o da definire, poiché è nella sua essenza infinito.
Così Domenico Alvino, non volendo sottrarsi alle parole, ma al contrario misurandosi con l’impossibilità del dire un tema tanto elevato, si inoltra nella selva delle connotazioni e si incanta nell’incontro con una sconosciuta “ammantata d’alba” della prima poesia (noteremo mille volte certi versi lancinanti, come scoccati da un lampo celeste, simili a questo, nelle 117 poesie che compongono il volume, e non ci stancheremo di sottolinearli, epifanie di mistero) o con la sua donna d’elezione, che “viene per l’amore” e ha “occhi di cerve immemori”, o con la sua nipotina che dorme, che “vive nel respiro dei fiori”, ovvero con la ragazza abbracciata da un compagno, tanto che “stettero così/che tutto l’universo passò tra i capelli/ con le stelle che fluivano/le comete dentro i respiri trattenuti”, e ancora ne “IL nome” (23), il miracolo della nascita e del nome, appunto, “Aprile”, degno di colei che apre, che si apre la strada verso la vita, in uno straordinario, straziante dialogo, costruito con sapiente maestria, in cui ogni parola è un universo, ogni verso un mondo, meditatissimo andirivieni di frasi poetiche, eppure come solcato da una sua perfezione assoluta. Così ne “La cantante cieca” (24), dove la parola sembra frangersi, spezzarsi di fronte all’orrendo buio delle pupille spente, quasi farsi singulto a rendere l’orrore; brevi lampi di senso come in “Cuore di cenere” (25) o in “Eila” (26), “dedicata alla figlia che andava sposa” (spiegherà qui il poeta l’appellativo Eila, criptico per tutti, crediamo, tranne che per lui?), dove la frase poetica cela, nasconde, non dice, in un gioco continuo di velamenti e disvelamenti; così, nel gioco delle allusioni, delle sospensioni, delle attese in “Tu eri” (27), sprazzi di frasi, frantumi di senso, tuttavia fittissimi di significanza, dove sempre aleggia la donna, sempre invocata, immenso tutto ed essenza del tutto, un lampo, come “lampo è la vita” nella poesia (28) dedicata ad Adamo ed Eva nell’Eden, con cui si chiude la prima sezione del volume.
Ora ci addentriamo col poeta nei luoghi delle epifanie, dove la donna aleggia col suo “volto flagellato” nella stupenda dell’incipit di questa sezione intitolata “Luoghi del miracolo”, incipit meravigliosamente inaugurato dalla “Oscura la linea degli Albani”, la poesia che porta nel sottotitolo “Luoghi in rovina, battuti dalla pioggia”, che Domenico Alvino indaga con occhi acuminati di lince, riportando sulla pagina le atmosfere misteriche dei riti millenari che si celebravano su quelle mitiche alture, sacre ai nostri più lontani antenati, la cui inquieta presenza sembra ancora aleggiare ovunque, anche se HIC ET NUNC è la presenza di una lei a rendere ogni cosa più viva e vera, come nella successiva che chiude la brevissima sezione, dove basta uno sguardo per accendere una storia d’amore ed è l’amore che fa da quinta dorata o sanguinante ad ogni verso…
Ancora una “lei” senza nome, ma ben determinata, come “delimitata” dai versi, apre la successiva sezione intitolata “Il miracolo” (leggere pag. 37) e qui davvero l’epifania della donna è tangibile e salvifica come l’angelo della Resurrezione, intoccata tuttavia, lampo che accende di sé il giardino di Villa Borghese, come di sé accendono il pianeta le ragazze che cantano e danzano, quasi avessero attraversato i millenni sempre nella stessa attitudine, poiché qui si sente l’aura celeste degli antichi e vi si inoltra il poeta, tanto da scrivere un brevissimo testo in latino – così vicina a lui è quella cultura, a lui, cioè al docente di Lettere Classiche – come anche il francese non gli è estrano: ha nella memoria la misteriosa dama che con fare altero attraversava la strada in una troppo nota poesia di Baudelaire ed egli la fa sua senza alcuna imitazione. Così, il poeta ancora si incanta a descrivere la grazia delle ragazze che in frotta si disperdono come passeri in un giardino, o l’abbagliante nudità di una donna, o la chiarità del volto di una bambina, o “l’immatermateriata” madre, che fa prove di maternità, o per Moana Pozzi (pag. 49) dalla “bellezza richiusa”, donne dai visi come cieli che aggiornano o annottano, che semplicemente sono, esistono, senza quasi poter essere descritte, ineffabili nella loro essenza misteriosa, fatte di luce, (pag. 51), di sussurri, che si muovono nelle città incantate, attraversando “la luminosa polvere degli anni” nella omonima sezione, “immagini in riva al sogno” (56), dove una lei più che mai fatta luce incendia il tempo dell’amore, di un lui che la attende come “esca, fiammifero” a illuminare il giorno, lei che salva lui “affacciato alla balza” del tempo, lei che, creatura salvifica, conduce “ai confini paradisiaci” (in “Precipizio”, 60), benché lui sia tentato dal baratro, dal vuoto, dal nulla dell’esistere, di contro a lei che è capace col suo solo respiro di attraversare i millenni (61) insieme a mille altre donne nella sezione dei “Ritratti”, dove si inseguono figure femminili innominate, che camminano “con qualche guizzo di lupo” (65), che ballano “sopra le inquiete/ore dei crepuscoli sospesi”, che “nell’orgoglio gettano vita e canto” (69), che “inclinano a gauche” (70), suscitando atmosfere di frenetico impegno politico; o altre denotate da nome e cognome, come nella poesia “Lacerazione” (71) per Giuseppina Puglia (ce ne vorrà parlare forse il poeta?), o per Porzia, la sposa fedele di Bruto, l’assassino di Cesare, che si uccide per amore di lui mangiando carboni ardenti (73), ovvero per l’amica che tutti abbiamo conosciuto, Maria Zarattini, per molti anni, indefessamente e senza alcun tornaconto, se non quello della felice condivisione dell’atto poetico, operatrice culturale presso il Caffè Notegen (ormai da tempo purtroppo chiuso), la cui “umiltà del volto/si appartava in un sorriso” (75).
Una sensualità sottile traluce dalle pagine, sensualità di cui è fatta ogni donna, sia quella “tutta capezzoli avidi” di uno spettacolo televisivo (83), sia nella sacralità del concepimento della vita, sia nel folle volo “dalle bassure iliache/a una melodia di nudo essere” durante l’atto sessuale, sempre tuttavia nella “menzogna dell’Amore”, anche se “la luce del desiderio ci accompagna”, come del resto la memoria di donne scomparse, di altre partite, fino alla “Furiae ex inferno aruptae” dell’omonima sezione (103), le donne-diavolesse il cui riso devastante apre la strada al niente, allo sbeffeggio pacato ma inesorabile dell’autore (103), donne divise tra quelle la cui “mano offre la rosa” e quelle che “nascondono il coltello”, che lasciano straziato e “pieno di pianto” l’uomo nel loro “chiudere e schiudere”, ovvero la donna pura e torbida come l’acqua (106), o ancora dal “sorriso colmo/di intime grazie/che ne sale un nugolo/ fino alla sete d’occhi/insaziati di guardarti”(107); donne emerse da una eternità di istanti, come la Clodia di Catullo qui rievocata con l’identico, struggente carico d’amore e d’odio (108 e 109), anche nell’ironia che ricorda la grande poesia satirica di certi classici, come Giovenale (la satira “Contro le donne”?) nella poesia “Tra i capelli ritinti” (110), fino al sarcastico poemetto “De pipparolibus allisque comparibus”, di cui solo l’autore ci potrebbe svelare la chiave, se volesse, non soltanto una goliardata poetica, poiché l’assurdo è del tutto evidente nella foia che prende i personaggi agitantisi sulla scena della poesia e della vita, puttane quindi, magnaccia, mariti cornuti e giovani amanti, nella pantomima triste e vecchia quanto il mondo, divertita e divertente tregenda di diavoli cornuti, in una oscenità da Basso Impero o da Suburra perenne, ovvero degna del cubiculum di Caligola, della Roma di Messalina di cui pare abbia ereditato lo stile la Puttana innominabile qui tanto efficacemente effigiata e dannata per l’eternità a essere considerata la “pipparola serva di pipparoli”.
Eccoci dunque alla sezione “Carni chiuse”, dove l’eros si fa vieppiù violento ed esplicito, benché la frantumazione del verso renda tutto come frammentato, quasi la riproduzione di un sogno, apparentemente insensato, eppure quasi tangibile, più vero del vero. Sogno, immaginazione, dialogo muto tra esseri che si infiammano di Eros: ogni verso è una scheggia di realtà che occorrerebbe meditare ed è lo stile, qui, nelle poesie più tarde, a rendere con forza la potenza del senso. Così il poeta si dibatte tra “Il nero delle carni chiuse” (123) e “Il negarsi della donna” (125), “La solitudine patita a opera delle donne e in famiglia” (126) con il sospetto, appena un’ombra malcelata di misoginia, già da noi notata, ma non esplicitata, come nella grande tradizione classica, certo dovuta a vera sofferenza d’amore, a incomprensione, più che a odio, livore di misogino vero e proprio, o rancoroso desiderio di rivalsa verso colei che si è negata all’amore; si dibatte, dicevamo, tra la brama della “donna impenetrabile” (127) dove il gioco leggero e ossessivo dei pronomi personali che si rincorrono da un verso all’altro rende assai bene l’incomunicabilità tra i due amanti, di cui lei è l’ “Inattingibile” (129), sempre e comunque “In fuga”, concetto reso benissimo dall’acceso sperimentalismo, quasi da “Novissimo”, come ne “Il cuore addosso” (130), benché risalente al 2011, ma sempre attuale. Si dibatte dunque il poeta nel “Dolore” (131) “dell’innamorato all’amata che lo ricusa”, un dolore fatto di cemento, ma “se lo fai uscire poi/tutto crolla” però talvolta “Amore presta ali” (132), sino ad arrivare alla definitiva “Cose ed ombre” (133) ossia “Per una giovane malamente abbandonata” che chiude la sezione, lasciandoci ad immaginare la misteriosa sorte della fanciulla, la cui anima “dorme sotto gli ulivi” (133).
Tutta dedicata invece al dolore della perdita è la successiva sezione “Addii”, colma di una infinita malinconia per le donne amate e perdute, la caduta del desiderio, il “vuoto rapido della bellezza” (139) e anche qui versi spezzati come singulti, parole macerate nel ricordo o nel nulla, gesti interrotti, ricordi smozzicati, l’aria “appena smossa sotto i cipressi” (140) e “nessun gallo a cantare” (141) in una simbologia che costruisce il senso profondo della mancanza di una lei inesprimibile perché inafferrabile, “legata alle rondini” (142), ovvero “che danza al passo delle nuvole” (ibidem) (“Alle rondini”, ovvero “Al cinema, lì davanti, due”) e che “non è come la luna” (144) e ha “cuore di cenere” (146) ed è in definitiva “donna domina domus prima/et quies ultima degli stremati/tempi” (147), emistichio che dà anche il titolo al volume, colei che nonostante tutto, il dolore per il mancato amore, la fuga, la perdita, accoglie come dimora primaria, estremo rifugio ai mali del mondo.
Infine, la conclusione del volume, con le ultime tre sezioni, “Il pagliaio vuoto”, “Sogno” e “Canzoni”, dove ancora emergono strazianti figure di deserto e abbandono, si tratti della donna “lasciata attendere, che ardeva” (151), della sorella morta, di quella arrivata “tutta sporca” (155), o di quella “diventata ombra “che sbianca/a vincere la luce” (156), o ancora colei che “poiché tacque/si inveterarono le ossa”, con una delle tante citazioni latine che abbiamo tradotto, care al nostro autore, ovvero della novizia che lascia il mondo per il convento (160); di colei per la quale si rifiuta il Paradiso, se non la vi si trova (citando stavolta la “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni) (162); e ancora di Desdemona (in francese e in italiano) che Otello ha cancellato dalla vita (164), a cui sono dedicate due poesie, di Beatrice e di Laura…
Donne ideali dunque (173), donne-luna, Leucothea la Bianca, la donna dell’ultima volta a Madrid, la fanciulla che sorrideva al poeta “in un sottecchio”, mentre la madre la pettinava; la ragazza lasciata da un parigino innamorato che ne piange; la principessa sterile; l’alunna che ha preso il velo; donne simili a rugiada, e anche una poeta come Giovanna Sicari, purtroppo prematuramente scomparsa; e un’Alida, e Sonya, la nipote del poeta, ed Eva con accanto l’eterno Adamo, fino alla chiusa fulminante del “Correre da lei”, quasi fosse il fine ultimo dell’esistenza di ogni uomo.
(Francesca Farina)
mercoledì 12 novembre 2014
Chi è l’autrice di questo romanzo intitolato “CASA DI MORTI”.
Francesca Farina è nata in Sardegna, ha studiato a Siena e risiede dal 1973 a Roma, dove si è laureata in Lettere Moderne con una tesi sul poeta sardo Sebastiano Satta, relatore il professor Giuliano Manacorda, correlatore il professor Walter Pedullà. Nel 1983 si è specializzata in Letteratura Italiana con una tesi sul poeta "novissimo" Antonio Porta, relatore il professor Riccardo Scrivano.
Fin da giovanissima ha cominciato a scrivere poesie e diari. I Diari relativi agli anni 1977/78 sono risultati finalisti nel 1998 al "Premio Pieve-Banca Toscana", ideato e presieduto da Saverio Tutino. Sempre nel 1998 ha curato la pubblicazione di “Framas” (“Fiamme”, in sardo) che raccoglie poesie del fratello, della madre e un suo racconto. I Diari relativi agli anni 1986/87 sono stati premiati con la Menzione Speciale allo stesso Premio Pieve nell’anno 2007.
Nel 2000, i sonetti "Sulle ali dell'angelo" sono stati segnalati per la sezione inediti al "Premio Internazionale Eugenio Montale", organizzato e presieduto da Maria Luisa Spaziani. Sempre nel 2000, la silloge poetica “Nature morte” ha ottenuto il secondo premio ex-aequo al concorso "Nuove scrittrici", organizzato dalla rivista «Tracce» di Pescara, diretta da Nicoletta Di Gregorio.
Francesca Farina collabora dal 1986, in qualità di critico letterario, alla rivista accademica «Esperienze letterarie», diretta dal professor Marco Santoro dell'Università “La Sapienza” di Roma.
Diversi suoi racconti e poesie sono stati pubblicati in riviste specializzate, ovvero premiati o segnalati in concorsi letterari.
Un'antologia di sonetti, che ormai ammontano a circa cinquecento, intitolata “Tragoedìa”, è stata pubblicata nel 2008 dalla Casa Editrice Zona (www.editricezona.it), mentre è pronto un romanzo inedito dal titolo “L'isola dei morti”. Ha scritto, inoltre, tre sceneggiature, una basata sulla “Vita di Vittorio Alfieri scritta da sé medesimo”, una ambientata nella Sardegna dei primi anni Sessanta e intitolata “Tamarikes de preta” (“Tamerici di pietra”) e una tratta dal romanzo “Il giorno del Giudizio” di Salvatore Satta.
Un altro suo libro di poesie è “Metamorphòseon”, ossia “Delle trasformazioni”, pubblicato dalle Edizioni Associate di Giorgio Cortellessa nel 2008. Nel corso degli ultimi anni ha partecipato a molteplici manifestazioni poetiche e organizzato numerosi eventi culturali, come la “Maratona dei Poeti”, con letture poetiche a cadenza mensile e la partecipazione di circa trenta poeti; il “Leopardi’s Day”, a cadenza annuale, con letture poetiche in occasione dell’anniversario della nascita di Giacomo Leopardi e L’Isola dei Poeti, che si tiene dal 2008 all’Isola Tiberina, a Roma, e nell’ambito della quale quest’anno si è svolto anche il Premio di Poesia “Insula Romae”.
Attualmente, cura la redazione di un suo blog personale, www.poeticontemporanei.blogspot.com e sta preparando tre nuovi libri di poesie per tre diversi editori. Questo è il suo primo romanzo, di cui pubblica qui il capitolo undicesimo.
Francesca Farina può essere contattata tramite l’e-mail rosafrancesca.farina@fastwebnet.it
Che cos’è “Casa di morti”.
“Casa di morti” è un romanzo mito-biografico, perché si tratta di una biografia, più che romanzata, mitizzata, dell’autrice, la quale riassume in sé un’antichissima schiatta, austera, dignitosa, profondamente fiera dei propri valori, tra i quali spicca primario quello della cultura. La lotta secolare per emanciparsi è passata proprio attraverso la scuola, lo studio, la lettura e la scrittura, valori ai quali la famiglia dell’autrice e la stessa hanno sempre creduto e che hanno a lungo perseguito, fino a pervenire al momento attuale, forse il momento migliore dell’intera loro storia, nonostante la decadenza del mondo, che assiste al proprio sfacelo senza pressoché alcuna reazione. La denuncia del crollo della società e della Storia del Villaggio è il vero cuore del romanzo, che ripercorre, come esemplare della storia di tante altre famiglie, la storia della propria, con l’intento di salvare dall’oblio la vita degli ultimi, coloro che non hanno storia e non hanno parola, che si dibattono nei brevi giorni della loro esistenza e poi si addormentano nel sonno perenne della dimenticanza, quasi non fossero mai venuti al mondo.
Il romanzo si compone di due parti: nella prima si rievocano gli ultimi due secoli, dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, nella persona e nelle vicende degli antenati più prossimi. Nella seconda, come in una ideale galleria di ritratti, sfilano i personaggi che hanno compiuto la loro meravigliosa e generosa opera di donazione di sé, per permettere alla stirpe di perpetuarsi, affidando all’estrema Discendente, anche grazie alla memoria orale degli antichi cantori della famiglia, il compito di narrarne le vicende, attraverso la scrittura. La conclusione è inconclusa, come la stessa vita, che prosegue oltre l’umana esistenza, senza fine…
“CASA DI MORTI”
ROMANZO MITO-BIOGRAFICO
DI FRANCESCA FARINA
Capitolo undicesimo
Casa materna. Antenati quasi fiabeschi: Usignola “Mani d’oro” si unisce al Cavaliere della Valle Solitaria. Follia e morte delle donne della casa materna. Il mattino d’un Villaggio d’altri tempi.
Lhaus, il Villaggio da cui era mossa la Bisnonna materna, che se ne venne a piedi a Bithia con un fratellino a servire “per il ventre”, “per il solo mangiare”, era costituito da poche casupole, fermate sulla costa di un monte, attraversate da un sentiero sterrato e perverso, con una pietraia tutto intorno: simile a una pietraia sempre era apparso nell’immaginario della famiglia il povero, spregiato luogo di dove giunsero quei primi, lontani ascendenti della Madre, quella ragazzina magra con gli occhi che le mangiavano la faccia, le labbra appena una fessura, come scomparse a causa della fame, le guance asciugate dalla miseria, e quel bambino, che lei si tirava dietro, debilitato dallo scarso cibo e dalle lunghe, precoci fatiche, recalcitrante per la stanchezza e l’umiliazione, presto domato dalla lunghezza del viaggio.
La straordinaria forza vitale che la sorreggeva, la gioia profonda di esistere, nonostante l’insensatezza stessa di quella, nelle tristi circostanze in cui era venuta a trovarsi, l’orfanezza, la grazia del suo sorriso sempre aleggiante sulle gote a formare un lievissimo arco, a restringere le pupille colme di luce, determinarono il suo destino, insieme alla potente melodia della sua voce di poetessa orale:
“Mariedda servitora
de signora Preziosa
chin sa oche armoniosa
paret Minerva Prandora!”
così le cantò un anonimo poeta del Villaggio, paragonando la Marietta dalla voce armoniosa a Minerva “Pandora”, dai molti doni. Si mise dunque ai comandi di quella riottosa dama, signora Preziosa, la quale in perpetuo ozio trascorreva i giorni quasi esclusivamente a letto, adagiata e come sommersa da cuscini ornati di trine e lenzuola ricamate, morbide coperte e serici copriletti, essendo figlia ed erede di ricchi proprietari di molti “salti” e pascoli e “tanche” e greggi e armenti, dei quali nulla conosceva se non le pingui prebende che ne traeva e grazie alle quali era sprofondata lentamente in una quasi morbosa e pestifera indolenza: in realtà, alla sua pigrizia inaudita era dovuto il nome, o piuttosto il soprannome, che portava e col quale è passata alla leggenda.
Dalle coltri tra cui stava perennemente adagiata, Signora Preziosa sorvegliava stancamente l’andamento della casa, come disgustata da ogni più piccola incombenza, e per un nonnulla chiamava quella servetta svelta, allegra, che in un lampo, volgendo le trecce, nere come ali di corvo, occhi e gambe di cerbiatta, si precipitava in cucina, in cantina, nella strada, chiamava un servo, rincorreva un fattore, portava l’acqua, preparava la tavola, tagliava la legna, accendeva il fuoco, stirava i panni, quindi, torcendosi le mani nel grembiale, tornava dalla padrona a riferire che tutto era a posto, che ogni cosa era fatta, che la tale persona era venuta, che la talaltra commissione era assolta, e a domandare affannata e sorridente che cos’ altro la signora comandasse.
Nei mattini caldissimi di luglio, durante i quali ribollivano le strade e le piazze del borgo, deserte sotto il più frenetico sole, la signora faceva colare l’oro del tempo quasi inerte, sfibrata dalla calura, nelle stanze dalle imposte accostate a schermare le unghiate della luce. Nell’ora che saliva, passavano i venditori di ramazze di saggina, di recipienti di rame, dei quali si ornavano come fanti primordiali cinti da armi preistoriche, le lance innestate, i giganteschi elmi scintillanti di rossi riflessi. Quei poveri viandanti avevano fatto un lungo viaggio, partendo nel cuore della notte dai loro villaggi della costa o della montagna, per essere al paese alle prime luci dell’alba e spesso ne ritornavano senza aver spacciato nulla o quasi, timidi e impauriti, tristi e come schiacciati da un peso che non era soltanto quello delle loro arcaiche suppellettili. Tuttavia cantavano meravigliosamente con voce nasale e cuore sperso:
“A chie cheret “A chi vuole
laviolosos recipienti
ei saltaineeeeeeees!” e padelleeeeeee!”
Allora, ascoltando quelle voci cantilenanti che provenivano dal fondo assolato e deserto delle vie, la padrona si assopiva, sognando. Più melanconici e cupi i giorni d’inverno.
Nella buia cucina, abbandonato in un canto, sopra una stuoia, aspettando anch’egli qualche ordine o schivando le ingiurie di un vecchio servo irascibile, quel fratellino, che ella si era trascinato dietro dal suo barbaro villaggio montano, lasciato all’oblio di uomini e di dei, il quale dormiva per terra, con sempre i soliti panni addosso, nutrito scarsamente col cibo che la sorella strappava per lui alla mensa dei padroni, latte e ricotta e pane e lardo, e qualche volta anche salsicce e cacio, e perfino, le domeniche, i maccheroncini cavati dal ferretto, conditi con il formaggio e le noci, o anche col sugo di pecora, e nei giorni grandi dell’immolazione del maiale, come per la festa della tosatura o per il sacrificio degli agnelli, la carne a fette, il vino nuovo o d’annata, il “pane lentu”, quelle morbide e rotonde forme di pane non biscotto che si mangiavano in giornata perché altrimenti divenivano dure e meno fragranti; i dolci.
Lo cresceva, orfano come lei, scomparsi nella cenere del tempo i genitori, così poveri e ignoti da non serbarne neppure il nome, adattandogli talvolta qualche vecchio vestito smesso, in cui la sorella profondeva la straordinaria abilità e grazia posseduta nell’uso dell’ago. La chiamavano Usignola, la chiamavano “Mani d’oro”, e per il canto dolcissimo, la voce acuta dai toni alti e limpidi, smaglianti come il cristallo più puro; e per quelle dita sottili e lunghe che intrecciavano fili su fili, dirimendo antiche questioni tra l’orlo e la stoffa, districando asole e bottoni, sfrondando gugliate e tagliando nodi; le piccole unghie, simili a mandorle fresche, scintillavano alla luce delle braci, quando, calata la sera e ricoverati uomini e animali sotto ogni tetto o stalla, nel silenzio incantato e freddo che oscillava sul paese, ella cuciva; dormiva un poco, la testa sul braccio, sfinita dalle fatiche della giornata, poi riprendeva il lavoro e al mattino la sua sdegnosa padrona osservava tacita i ricami, i punti nascosti, i rammendi invisibili e stupiva che una simile meraviglia albergasse in casa sua; se la teneva perciò cara e nascosta, gelosa che uscisse anche soltanto per andare alla fontana - poteva sempre incontrare un ammiratore che gliela sottraesse, Dio guardi! - chiamandola di continuo: voleva che ricamasse o lavorasse all’uncinetto presso il letto, non doveva muoversi che ... guai! Succedeva il finimondo, erano urli e strepiti a non finire, e Marietta correva, serena e disperata di tanta sollecitudine e tanta schiavitù.
Cantava, cucendo, e il canto si spandeva per le strade selciate, per quei torrenti di pietra, per i sentieri simili a cunicoli del Borgo a lei straniero - la chiamarono infatti sempre Marietta di Lhaus e null’altro - e ciascuno riconosceva quel canto, sorridendo per la tenerezza che suscitava, per i ricordi e le nostalgie che accendeva.
Quella voce, come anche la delicatezza nel cucire, sarebbero passate - retaggio ineguagliabile e possesso perenne - dal suo sangue al sangue delle sue discendenti più lontane, quando esse non erano ancora nella mente e nei sogni della fanciulla, non ancora lei aveva visto sorgere in lontananza, insellato come un cavaliere antico, altero e sprezzante come un eroe mitologico, l’uomo che l’avrebbe condotta sposa e avrebbe diviso con lei un benessere neppure immaginato, quando presso il focolare acceso consumava gli occhi, ma non il cuore, a tessere la sua tela di vita.
Quell’uomo, che se ne stava allora sprofondato nel cuore di una valle solitaria, immerso nella cura del gregge, tornando in paese qualche rara volta, quando la necessità impellente lo spingeva a sellare la cavalla, da quella attitudine inveterata a sfuggire il consorzio umano e a preferire piuttosto lo spaventoso, intricato bosco che costituiva la sua proprietà fiorente, amata e prediletta quanto la più venusta e sacra delle magioni; quell’uomo, dunque, aveva avuto per sempre mutato il nome: Thur era in realtà l’arcaico patronimico, di cui sino alla fanciullezza si era fregiato, finché non prevalse il soprannome, che nel chiuso Borgo a nessuno era negato, e quel soprannome fu “Della Valle” o “Vallino”, come giovanilmente celiando sulla piccolezza ed esiguità della di lui persona lo appellavano i compagni.
La natura allora, in quei siti inaccessibili e spopolati, proliferava gaudiosa e trionfante ancora come quando era apparsa ai primordiali abitatori venuti dal ponte di arcipelaghi che collegavano l’Isola alla terraferma: millenari lecci, olivastri e querce ricoprivano ogni plaga, dove si aggirava innumerevole una fauna rigogliosa di pernici, lepri, volpi e cinghiali e mille altre specie gloriose; i cinghiali si mescolavano alle scrofe e ne nascevano maialini striati, dalle bande bianche e nere, selvaggi e bradi quanto i loro padri, minuti e arcigni. Egli si trovò a lottare perfino con quei foschi animali, tanto che una volta dovette difendersi dall’assalto di uno di essi a colpi di roncola, mancino com’era, guardandolo negli occhi, sentendo sulla faccia il fiato ansimante e il rantolo furibondo della bestia, affondando le dita tra le vene aperte del formidabile collo irsuto.
La sua giovinezza, e del resto l’intera esistenza, fu per lui segnata da un avvenimento che spezzò i suoi anni in due parti, dato che da quel momento non fu più in grado di scordare quanto gli era accaduto. Verso i vent’anni, mentre in un fiorito giorno di maggio attraversava a cavallo la cupa e desolata valle dell’Annunziata, nei pressi dell’antico santuario tanto caro ai compaesani, fu fermato da due donne, forestiere alla foggia dei vestiti, le quali vollero, per una lira, fargli le carte e leggergli la mano, predicendogli che si sarebbe sposato, che avrebbe avuto quattro figli e che sarebbe morto nel 1930. Se ne rideva, allora, eppure ogni fatto si svolse poi come previsto, quasi fosse stato marchiato a fuoco nel suo sangue.
Chissà come fu che vide per la prima volta la fanciulla del suo cuore, quella ragazzina che andava scalza a prendere l’acqua alla sorgente tra gli elci, in mezzo ai cervi, volando sulle pietre della strada come sull’erba bagnata, cantando con la sua voce di passera per vincere la noia e la fatica; entrata per sempre nella sua carne, ella fu scelta e si unì al suo cavaliere, che il giorno delle nozze, vestito del costume delle feste, con la camicia ricamata dalle maniche amplissime sgargiante sul collo e i nerissimi capelli a sfiorare il corpetto, i corti calzoni di orbace - quasi una sottana scampanata sulle cosce, secondo l’uso - le apparve bello e forte come un principe nuragico.
Ella si prese cura, dunque, non più della dimora altrui ma della sua stessa casa, simile ad un’ape affaccendata, che fabbrica un continuo miele, rassetta le cellette, mette da parte la cera, nutre i piccoli con il nettare più pregiato, privandosene per darlo a loro, dopo aver fatto bottino di polline sulle corolle più ricche e delicate. Non c’era attività alla quale non si dedicasse con lo stesso amore, la stessa sollecitudine; non c’era festa, al Villaggio, che ella non rammentasse di onorare preparando ogni cosa seconda la tradizione, i cibi più squisiti, le conserve più fragranti, i dolci più pregiati, senza mai scordare il dono naturale del canto e del ricamo, veri tesori in tempi in cui nessun prezioso meccanismo li sostituiva.
In breve attorniata dalla prole, le tre figlie e un unico maschio, secondo la profezia fatta allo sposo, per anni fu intenta a instillare, come fa il gabbiano coi suoi nati, il cibo della mente e della mensa nei cuori e nei ventri di quei fanciulli. In loro dunque si mescolarono ansietà e mollezza, vertigine e gioco, odio e prudenza. Poiché , al Villaggio, in quella selva di donne costrette per tutta la vita a un’esistenza quasi da prigioniere, resistevano, tenaci idoli, le donne-virago, le donne-toro, contrapposte alle piccole dee d’acqua, le donne friabili e liquide, molli e lente, flemmatiche in apparenza, ma in realtà bruciate da un fuoco interiore, da un furore frenetico che le accendeva come torce immani e mostruose, divampando improvviso e inarrestabile.
Le donne-toro, vere dee nell’arena dell’esistenza, erano costantemente armate, non cedevano mai le lance, le frecce, gli scudi che parevano portare sempre addosso e di cui si servivano non per proteggersi, ma per scagliarsi a tutta forza con grande strepito contro chiunque osasse mettere dei tralci sulla loro strada; scendevano dunque continuamente in campo, corazzate, pronte alla lotta verbale, pure se si comprendeva bene che lo sarebbero state anche allo scontro fisico, per imporre una volontà suggerita dall’istinto di sopravvivenza, la religione dell’esistere, sola religione che esse adorassero.
Delle tre figlie, dunque, Juana crebbe simile a una piccola dea d’acqua, un torrente che scroscia sotterraneo, docile e calmo nella stagione estiva, tonante in quella invernale, tuttavia celato a tutti sia nell’empito delle sue frenetiche onde, sia nella flessuosità del suo adagiarsi sinuoso. Ella apprese dalla tenera madre l’estrema abilità dell’ago e, chiusa tra le sue stanze come monaca di casa, sommessamente pia, trascorse la vita intrecciando serti di filo, rubando al ragno la sua maestria, alla colomba i sospiri, agli angeli i sogni da tessere sulle sue tovaglie di chiesa, delle quali, dopo immane fatica, faceva dono ai prelati e che ancora, ai tempi recenti, ornano i sontuosi altari delle basiliche del borgo, a giovamento delle Anime Purganti.
Ammantata di silenzio come da un velo incessante, armata soltanto del ditale e del suo arnese acuminato e lucente, traeva dalla punta e dalla cruna ogni sentiero fantastico, ogni fiore paradisiaco, oro e perle, il violetto della passione e il rosso della crocifissione, la corona di spine e la ferita sul costato, il vino e il pane consacrati, i pampini festosi, i tralci sfarzosi, primavere celesti ed estati trionfanti. Ogni cosa dovette presto infrangersi contro lo scoglio ardente della febbre che devastò i suoi polmoni, ridusse a cenere e sangue i suoi bronchi, trascinandola verso un inferno di orrori, gli ultimi mesi della malattia, dove si abbandonò per sempre alla pace che in tutti i suoi giorni aveva cercato quale calice prelibato.
Era di qui dunque che cominciava la vena della follia della casata: folli, del resto, erano chiamati gli abitanti di Lhaus da quelli delle contrade circonvicine e in particolare dai paesani di Bithia, mentre vastissima era la letteratura sarcastica che si tramandava a disdoro di quelli. La follia entrò nel cuore della casa, si insediò nei gangli della famiglia che viveva, come tutte, in semplicità e ne fu colpita la rosa maggiore, Josepha, la quale dapprima cominciò col vagare tra le strade del Borgo, simile a puledra selvaggia, smemorata di sé e degli altri, poi tra i viottoli che portavano in campagna, i solatìi vigneti, le sperdute lande desertiche dove andava cercando i calzoni di ogni uomo che passasse, finché qualcuno non la riportava come invasata dalla madre.
Danzava talvolta, nello slargo del vicinato, agitando lo scialle, gettando il fazzoletto con un gran gesto della mano, aprendo la blusa a mostrare i lattei seni mai toccati dalla luce, scuotendo le sottane, sollevandole fino alla cintola, sino a che le compagne, dapprima allegre e divertite di tanto spettacolo, quindi scandalizzate, e infine irate contro la sua improntitudine, non la spingevano in casa, afferrandola per le spalle, per i polsi, per i capelli: ella allora, dimostrando una forza insospettabile, quasi mascolina, si dibatteva simile a una tigre, mordendo, scalciando, puntando i piedi sulla soglia di basalto della povera dimora. La madre, le mani alle tempie, si batteva il volto, si strappava le chiome, la bocca serrata per non urlare; pallida come un cencio, si riprendeva tra le braccia quella figlia insensata, cullandola quasi fosse ridiventata bambina e piangendola come fosse morta.
Le crisi che la coglievano si fecero col tempo sempre più frequenti, suscitando immenso dolore in tutti i suoi, che se ne stavano muti e impotenti di fronte all’esplosione di quella passione frenetica, la quale sembrava provenire dagli dei, aspro castigo, fino a quando fu allontanata per sempre dalle amate stanze della casa paterna, e chiusa in un luogo di eterno lutto.
Era da lei, dunque, sapeva ora la Discendente più estrema, era da lei che procedeva la linea della follia, l’insania degli dei: era da lei dunque che si era trasmessa anche al remoto pronipote che fin da bambino sembrò appartenere al mondo parallelo degli dei nascosti o delle ombre misteriose, tanto erano stranieri i suoi giochi, modi e sguardi, parole ed atti; lunghissimi sonni silenziosi, mutismo prolungato, rare domande inaudite, e poi ogni tanto quel precipitare tacito e lento verso il basso, lo smarrirsi della mente e di ogni senso in un obnubilamento silente; era la manifestazione più evidente del “piccolo male”, quello stesso che si diceva colpisse Alessandro, il grande Macedone, e Giulio Cesare, e altri sublimi.
Scivolava allora il bellissimo fanciullo, quasi demente, per brevi istanti, verso il pavimento, le membra contratte e immobili, gli occhi socchiusi, dimentico di sé e di ogni altra cosa, con un enigmatico sorriso sulle labbra: segno di insania o di ironia perché faceva a tutti uno scherzo sovrano? Fu quello stesso che scomparve giovanissimo, pressoché ancora fanciullo per come parlava, ragionava o sentiva, quasi avesse ereditato anche la fragilità o la sfortunata sorte degli avi, travolto inoltre da una morte crudele, come accadde al Prozio di ritorno dalla Terra Argentata, o al Nonno, tra i tralci della vigna. Un fine drammatica sembrava fare corte intorno ai rampolli della famiglia, come era avvenuto per i rami più annosi; lo stesso odio d’altronde li divideva, la stessa rabbia li possedeva, la stessa tabe li infestava, l’amara follia.
Quelle donne che sembravano obbedire ad ogni influsso astrale, ad ogni soffio dell’ alito dei morti che si facesse sentire uscendo da un armadio, da una stanza o da una tromba di scale, erano pronte ad espiare la vita - non di altro si trattava - sacrificando se stesse su un altare immaginario, tributando agli dei sconosciuti, eppure presenti, omaggi infiniti. Così, la terza sorella, Nina, per la quale sembrò aprirsi un futuro fiorito nella grazia di un innamoramento, promessa sposa di un giovane bennato, egualmente fu colpita dal coltello della casualità inesplicabile, ottenebrata la mente dallo strazio di una nuova morte: quel giovane che avrebbe dovuto condurla a nozze, all’improvviso perì, toccato nei visceri da ignoto morbo. Il matto del Villaggio che dipanava il gomitolo dei vicoli, traendone ogni cascame, per primo diede la notizia alla fanciulla, irridendo quasi fosse lieta novella, ed ella, udite le atroci parole, afferrata la treccia fluente che ornava gli omeri delicati, se la strappò dalla radice con tutta la forza della sua disperazione. Non tardò, del resto, a scendere anch’essa le scale del sepolcro, dilaniata da quel folle dolore, che coglie chi è privato di un unico bene, ancora giovane e svelta nei suoi anni recenti.
Solo dunque rimase quell’unico figlio maschio, simile a Giovanni accanto a Maria ai piedi della croce, virgulto superstite di tanta amara pianta, estremo sostegno della triste madre, del disgraziato padre, ma l’insaziabile vento della morte dovette ancora soffiare a disperdere quella fanciulla che aveva avuto “mani d’oro”, a coprire i suoi occhi lucenti di terra e polvere, a scuotere un’ultima volta le sue vesti innocenti. Così, si aggirarono nella casa deserta padre e figlio, nei mesti mattini invernali dal bianco albore di ghiaccio, nelle tiepide sere d’estate al canto iracondo dei grilli, preparando un amaro pasto nel rintrono del silenzio, trascorrendo insonni notti al latrato dei cani, quando innumerevoli stirpi di pensieri si addensano nella mente, annuvolandola di orrore.
La vita continuò per qualche tempo nella solerte cura delle miti agnelle, degli indocili capretti: si smacchiava il bosco, si rialzavano muricce, si aggiogava il paio dei buoi, aratura e seminatura, seminatura e aratura si alternavano ad ogni inizio della stagione autunnale, a settembre, che, secondo l’uso biblico, era chiamato “Caput anni”, “Capodanno”, ma ciascuna cosa avveniva nel segno del silenzio, tra le palpebre socchiuse a tanta clamorosa luce, mentre i dolorosi lacerti di quello che erano state la sposa, la madre, e le figlie, le sorelle, si affacciavano vividi e incantati alla memoria, a schiantare la piana desolata dei giorni.
Ogni giorno, il cristallo dell’alba si spezzava, frantumandosi in mille smerigliate schegge al suono del bronzo cupo e pesante delle campane di San Giorgio, il soldato elmuto effigiato nei diaspri dell’anello di fidanzamento, e tuttavia splendeva in molteplici echi, quasi trilli e richiami argentei e dorati, annuncianti l’avvento del dì. In fondo al Villaggio, altre campane rispondevano, quelle del lontano Convento dei Cappuccini e di cento altre chiese. Ma i due pastori, padre e figlio, come tutti gli altri, non avevano certo aspettato che le squille suonassero: stavano già nella valle, sia che fosse innevata, sia che venisse dardeggiata da una pioggia di fuoco, sotto le frecce d’agosto, mentre l’aurora aveva accompagnato soltanto i passi delle donne alla fontana, a prendere la prima acqua, quella per il primo caffè, i frettolosi lavacri. Il crepuscolo estivo era allora un balsamo dopo una notte di pena, nel caldo atroce del colmo agosto. In inverno, invece, un coltello di ferro tagliava la pelle di chi si avventurava per le strade ghiacciate, bianche di gelo e persino i cani se ne stavano nascosti nei più profondi recessi.
Ma i pastori, che nulla temevano se non la fame e la miseria, erano già usciti, chi a piedi, chi su un asino paziente e mite, che essi amavano e che li amava come se sentissero quanta affezione fosse loro dedicata; a un bivio della strada, sull’Altopiano, o nella vallata, lasciavano la comunale e si addentravano negli elceti, malinconici e soprappensiero, verso i pascoli, le sorgenti, i chiusi delle candide greggi. Le donne invece, rimaste al Paese, ma non più quelle del padre, del figlio, accendevano il fuoco del camino, attendendo, poiché il loro tempo era l’attesa, null’altro. A quei mesti tempi, il cibo era scarso, le suppellettili misere, gli arredi estremamente poveri, gli abiti semplici; persino i sentimenti si amministravano con parsimonia spasmodica, quasi dovessero, se effusi, esaurirsi, come il sale, come il miele, oppure l’olio, il pane ed il cacio, elementi fondamentali dell’esistere, quasi sacri, e come tali da non sprecare. La vita dei due superstiti, dunque, in quello sperduto villaggio si svolse per qualche tempo ancora tale e quale a quella delle api, ma senza più il miele delle donne.
Venuto a trovarsi dunque solo e ormai grande quell’unico erede, e considerato quasi ricco, avendo molta terra e bestiame, un giorno un confinante, certo Moccio, rivolgendosi al padre di quel figliolo rimasto senza madre, gli disse:
“E che aspetti a farlo coniugare? Se vuoi che prenda una donna, vanne a casa dei Magnus, che ne è piena!”. Dopo qualche tempo, in risposta: “E sì, che ci sono andato, fulmini di fuoco, ce n’è un’intera conigliera! Ma quanti ne ha fatte, di figlie, la moglie di Magnus, non ha avuto certo la fica marcia!”. Tuttavia, nonostante l’aspro sarcasmo, il figlio condusse subito sposa una di quelle giovani della schiatta dei Magnus, la quale, presto divenuta madre, avrebbe allietato di molti discendenti la sua casa, portando calore e vita nella dimora devastata dal ricordo delle molteplici morti recenti. Poiché una certa tenerezza, contrapposta ai rigidi costumi tribali, aveva invece animato la stirpe materna, di cui appunto Magnus era il nome, a significare l’altezza della persona dei suoi appartenenti.
Presto donne più liete avrebbero popolato la dimora, arricchito di risa e grida i giorni cupi dell’interminabile inverno barbaricino, ravvivato di mille faccende e astrusi conversari lo spazio smorto delle stanze: vi si sarebbero svolte infatti cento occupazioni, e tutte sarebbero apparse festose, piene di una sotterranea allegria, di una perpetua ilarità pronta ad esplodere ad ogni istante, tranne poi a smembrarsi se la piccola, pallida madre stesse male. Quella stessa madre presiedeva ad ogni compito domestico, considerato quasi ufficio sacro, alla cottura del pane, fatica immane che richiedeva ore e ore, addirittura dì e notti di lavoro incessante, con l’ausilio delle “cochitores”, le povere aiutanti che vivevano di quello, che campavano ripagate dal pane stesso che contribuivano a preparare; alla manipolazione della pasta per i maccheroni o gli svariati dolci; alla conservazione dei cibi più diversi, i fichi, l’uva, le mandorle, le noci, infiniti frutti e legumi da serbare per la cattiva stagione. Quella stessa madre sarebbe poi morta a causa dell’incuria di un falso medico che non seppe o non volle riconoscere nelle sue viscere la cancrena della peritonite.
Non per questo una delle sue estreme discendenti si trattenne dal frequentare l’erede dell’inetto medicastro, i cui nipoti fecero ascrivere sulla lapide mortuaria, a lor maggiore vergogna, “medico degli inguaribili”, suscitando segreto scherno e ira in chi conosceva la verità. Ogni rancore, pertanto, sembrò svanire, ogni vendetta dileguarsi come fumo. Non era stato forse dimenticato e come rimosso del tutto anche il “peccato originario” di quel debito contratto a danno dei parenti poveri dai parenti ricchi, e mai più risarcito? L’oblio parve dunque cadere sopra ogni cosa, e ricoprire con uno strato di sterco ogni memoria.
(continua)
POESIA "IO SONO L'ALBERO" DI FRANCESCA FARINA DEDICATA A TUTTI VOI!
“Io sono l’albero e la foglia,
sono il frutto, il miele e l’ape
e la nuvola e il vento e l’alto cielo,
sono il gatto, la martora ed il muschio,
sono il coltello, il taglio e la ferita,
sono la squadra, il cerchio ed il tamburo,
il suono, il cadavere e la danza,
il rigoglio, il verme, oscura terra,
zolla, scorpione, indice, lanterna,
guaio, detrito, scarto ed illusione,
mente, memoria, e te, mano che scrivi.
Sono la goccia, io, e sono il lago,
acqua perenne e pozza insanguinata,
sono mannaia e chi mi ha sferrata,
sono mortaio e seme che ho pestato,
io sono il pianto e chi mi ha consolato,
sono radice, fiore, sputo, fiele
e sono cedro, puro arco, piede,
sono puttana e chi mi ha generato
e sono uno rimasto senza fiato,
sono quel fiato a lui presto fuggito,
sono il cucciolo che si è assopito,
la biada, il forno, il pane che ho sfornato,
io sono l’ultimo, ramingo, smorto nato,
il derelitto e il diseredato,
il letto, il fianco, il sesso avvelenato
ed il piacere, il cuore, lo starnuto,
sono violino, sono alto liuto,
il cameriere e il vino che ha versato,
il commensale e il vino che ha libato,
il panettiere e il filone che ha bruciato,
la legna, il fuoco, l’arbusto incendiato,
il dio, il lampo, il tuono risuonato,
il fulmine di Giove, il fulminato”
Francesca Farina
rosafrancefarina@fastwebnet.it
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