martedì 9 marzo 2010

"TRAGOEDIA" DI FRANCESCA FARINA NELLA CRITICA DI ROBERTO PIPERNO

“Tragoedia”, Edizioni Zona, di Francesca Farina
di Roberto Piperno

E’ stato un piacere, ma anche un sfida, lanciarmi nella lettura di questo libro di Francesca Farina, un’amica ormai di lunga data nella comune azione di promozione della poesia, come ad esempio all’Isola dei Poeti.
Una persona impegnata con la vita e che spesso si raccoglie nel suo mondo, staccando anche il telefonino per tante ore al giorno.
Così questo libro, profonda testimonianza personale in poesia, è stata una luce via via più forte puntata sulla coscienza profonda di Francesca Farina, ma anche una luce per comprendere ciò che avviene anche a tutti noi.
Un libro che avevo già velocemente letto quando venne pubblicato, ma che ho riletto per questa odierna presentazione, da me auspicata, e che mi ha coinvolto per la sua non comune capacità di comunicare aspetti tosti della vita, momenti di una tragedia che non ha fine, dal primo all’ultimo rigo.

Ma notiamo subito - prima di entrare nei testi di Francesca Farina - il sonetto di Shakespeare che la poeta pone all’apertura del suo libro, che ci ricorda che “ le rose hanno spine e le argentee fonti fango” e che “il ripugnante bruco vive nel bocciolo più dolce”. Una premessa indispensabile per comprendere l’intero libro e per non essere travolti dai sonetti che seguono, tutti segnati da profonda sofferenza ma anche dalla gioia della vita: giacché la tragedia è sempre presente nella vita, ma la poesia unisce gli essere umani nel profondo, nutrendoli di bellezza e d’intercomunicazione.
D'altronde la scelta per il titolo della parola greca “ Tragoedìa” ci ricorda l’origine della parola: tragos= capro, oidé= canto: cioè canto dei capri: infatti la tragedia nasce in Grecia come un canto scritto per il sacrificio dei capri e la poesia è destinata ad un rito dionisiaco e ai canti satireschi che l’accompagnano.

Prima di esaminare il libro nel dettaglio, bisogna anche annotare un’altra caratteristica di queste poesie: si tratta di un centinaio di sonetti. Francesca Farina non si fa, in questo libro, coinvolgere dal verso libero, muovendosi verso una versione lirica della disperazione e dell’amore infranto.
No, utilizzando il classico e antico sonetto Francesca Farina manifesta la sua decisa intenzione di collegare la sua personale tragedia alla condizione umana di tutti, giacché nessuno si può sottrarre al dolore della perdita, alla negazione di sé. La scelta del sonetto ben si presta a tanti racconti della vita vissuta da Francesca Farina, dal padre, dalla madre, dalla zia e da se stessa: momenti che rappresentano anche momenti della vita di ciascuno di noi, naturalmente.
Il sonetto diventa così un veicolo forte e puro per cogliere e comunicare le regole di un comune destino umano: giacché nessuno si può sottrarre al dolore e alla negazione del sé. Ed è utilizzato con efficace abilità sonora, che ci permette di cogliere più a fondo la disperazione e il dolore della “tragoedia”. Qui di nuovo risalta anche il collegamento con la “Tragoedia” greca, cioè una struttura classica di poesia e di canti, che usa una lingua pura ed elevata. Anche Dante usa il termine “Tragedia” per indicare componimenti poetici non giocosi e di stile elevato.

Ma di quale aspetto della vita umana Francesca Farina scrive in questi sonetti?
Mi pare che giustamente nella “Premessa” al libro si dica che “la tragedia dell’amore rinnegato e incompiuto è il centro palpitante della raccolta” e che “il dramma dell’affetto calpestato, dell’amicizia cancellata, dell’amore deriso costituisce il nucleo fondamentale”.
Ciò infatti corrisponde proprio alla tragedia, a quel componimento che pone al centro un complesso problema di coscienza, che si sviluppa in una serie di episodi, che costituiscono l’azione tragica con la quale è difficile confrontarsi, ma che si muovono verso un finale chiarificatore e perfino liberatore.

Tutto ciò premesso, entriamo nei testi del libro, che è diviso in diverse sezioni, sia pure omogenee. Notiamo che i sonetti non hanno quasi mai dei titoli, proprio a sottolineare la coerente unità di tutti i testi, come successivi sospiri di un unico respiro.
Naturalmente, come avviene nella “Tragoedia” greca, esiste un “prologo”, qui chiamato “incipit”, che consiste in una riflessione sulla poeta stessa, il “capro”, che gioca ironicamente sul nome stesso “Farina”. Farina dice di se stessa ( pag.9) :
“Prima era grano, immersa nella terra,
poi fu preso alla mole, frantumato”
E il sonetto si conclude, anticipando il senso di tutta l’opera, cioè il permanere di conflitti tra solitudine e connessione umana:
“ Ma ora che occhi neri sono e fitta chioma
e pelle vellutata e bocca dolce
ed ali e artigli e cuore di leonessa,

vivo come creatura senza meta,
ansante, dimidiata, senza voce,
finché il telefonino non risuona…”.

*****

Ed ora veniamo ai sonetti, che non hanno titoli (salvo un paio) proprio per sottolineare la coerente unità di tutti i testi, come successivi aspetti di un unico percorso umano, respiri di un unico sospiro.

La prima sezione si chiama “Sonetti al bastardo”. E’ la vicenda disperata e disperante di un amore che non matura, perché l’uomo non partecipa; dice alla fine il secondo sonetto ( pag.16):
“tornava ardente il suo io barbarico
si rivelava pietra: tutto quanto
disparve, ed il mio scacco fatto certo.”

Ecco ancora una poesia, che rende ancora più chiaro il contesto. Qui si manifesta con chiarezza il trasporto d’amore verso un uomo, con il quale però non stabilisce nessun contatto reale. Leggiamo il sonetto a pag.18:
“In più di mille pensieri ti ho pensato
ti ho portato nel letto, tra le lenzuola
incandescenti nell’agosto ambrato
e sotto la mia doccia, al vellutato

getto dell’acqua, al bagnoschiuma
………………………………..
Ma qui davvero non sei mai entrato,
non hai mai visto il cimitero degli elefanti
su cui ricade a picco il mio balcone;”

E così seguitano diversi sonetti, che vanno letti in sequenza come capitoli di una storia e che raccontano episodi diversi del contrasto tragico, anche se il “capro” cerca costantemente la vita e non vuole essere il “capro espiatorio”.
Conclude uno degli ultimi sonetti di questo gruppo, a pag.27:
“ma sappi che degli angeli è governo
il mio mattino, l’intera mia giornata,
e tu ne sei per sempre chiuso fuori.”

Ma questo uomo è anche un “bastardo”, come recita il titolo di questo gruppo di sonetti. Infatti non sa riconoscere la qualità di dolcezza e serenità della donna che lo ama con tale profondità e che ha tale qualità di luce.
Inizia il sonetto a pag.23
“Andato, cancellato o differito?
lui non è neanche più una voce
al mio telefono, perché non ha capito
quale sprazzo di stella, quale sole

potevo essere io all’infinito,
quale torta di panna, quale dolce
alba infiammata a gigli, sacro invito
ad una festa incantata a bianche rose”

Così proseguono su questa linea i sonetti, che andrebbero letti – ripeto - tutti, uno dopo l’altro come capitoli/episodi del contrasto tragico, dei profondi monologhi d’amore, ma anche di protesta a fronte del comportamento dell’uomo, fino alla rivendicazione di una propria esistenza nella vita, che nessuno può distruggere. Leggiamo gli ultimi sei versi del sonetto a pag 27, di cui avevamo già letto la prima parte:

“Di questo sei esperto, questo inferno
che non percorri, ma a cui m’hai destinata
dicendomi: “Ora piangi e dopo muori!”,

ma sappi che degli angeli è governo
il mio mattino, l’intera mia giornata,
e tu ne sei per sempre chiuso fuori.”

I sonetti centrati sul “bastardo”proseguono e si succedono, occupando circa un terzo dell’intero libro. Ogni sonetto è un capitolo nuovo della vicenda tragica, tra la disperazione, la rabbia, il conflitto ed anche la difesa, fino al rimedio profondo della poesia, che diventa una strada per ritrovare se stessi e gli altri. In questa poesia, una delle ultime di questo gruppo, l’uomo viene chiamato “bastardo”, e poi vi è un riferimento fondamentale alla poesia in generale, come comunicazione profonda. Leggiamo a pag.36 :
“La strada è vuota, ma io non mi scoraggio,
anzi so che sono vincente al suo confronto,
perché non sa che cosa sia poesia;

non sa stendere in bella neanche un saggio,
è inutile che cerchi a farmi affronto:
ha già capito che la vittoria è mia”


La seconda parte del libro si chiama “Familiares” ed anche qui si manifesta in modo pregnante e poetico un’altra storia di amore, di perdita, di conflitti e di autonomia.
Nel raccontare la vicenda di rapporti familiari, che tanto peso hanno nella vita di ciascuno, Francesca Farina non ha timore di cadere nel personale, perché la trasformazione delle vicende della vita in poesia, in sonetti, allontana ogni rischio di caduta soggettivistica e leggiamo momenti esperienziali della vita di ciascuno di noi.
In questi testi, come in tutto il libro, Francesca Farina recupera il dolore, che si trasforma in memoria e la memoria diventa canto, quindi poesia, che è comunicazione ed anche catarsi.

I primi 8 sonetti riguardano la forte figura del padre, cominciando dal ricordo della sua morte. A pag.43:
“Il ventuno di giugno, nel solstizio,
quando spiega l’estate i suoi clamori,
chiamato da un demonio uscisti fuori
con l’ultimo respiro che hai ruggito”.

E subito dopo, alla pagina successiva, la dichiarazione del loro vitale rapporto, ricordando la sua nascita ed anche i luoghi e l’ambiente dove era nato. Leggiamo l’inizio della poesia a pag. 44:
“Lui fu sorgente ed io sono sua foce,
che scorre verso un mare devastato,
il mondo senza pace mai restato
che arranca trascinando la sua croce;”

E l’immagine-ricordo del padre prosegue. Leggiamo i primi quattro versi a pag.47 “Quell’uomo straordinario ci ha donato
la vita,il sangue, il pane, la sua croce;
a forza di sgridarci, senza voce
restava, alla tempesta condannato:”

Ed ora leggiamo l’inizio del sonetto a pag. 46:
“Quanta fierezza e orgoglio ha dimostrato
Nel giorno della laurea di sua figlia,
quella mediana che gli rassomiglia:
per lei si è perfino ubriacato!”

Seguono sei sonetti intitolati “Alla madre”, dove fin dall’inizio appare la tragedia della morte del figlio, Sebastiano, il fratello di Francesca Farina, anche lui poeta: alcune delle sue poesie sono state in precedenza raccolte e pubblicate da Francesca Farina , in un volumetto intitolato “Framas”.
Qui la madre appare nella sua realtà quotidiana e nel suo tragico dolore. Leggiamo a pag. 51, l’inizio e la fine del sonetto.
“Lavi i piatti, ti asciughi poi le mani
a un vecchio canovaccio stropicciato,
ma il tuo viso, come quello diventato,
è ancora bello, con tutti i suoi domani
***
da quando il tuo figliolo, che era rosa
e sole senza nubi, tuo fermento,
è calato nella fossa, assurdo tutto”.

Anche in questi sonetti dedicati alla madre ritorna in primo piano l’amore, centro di ogni rapporto umano significativo; ancora una volta l’amore è luogo di contrasto, di conflitto ed anche di disperazione. Un amore difficile con una madre sempre chiusa in se stessa. Leggiamo a pag.55.
“Madre, che non vuoi essere amata,
benché ricerchi in ogni luogo amore,
se ti stringo ti cambi di colore,
rifiuti sempre di essere toccata,

allora perché dopo, amareggiata,
lamenti che mancato ti è il calore
dei figli tanto crudi, che in dolore
partoristi, senza essere consolata?”


E poi Francesca Farina, attraverso una “Zia”, tocca profondamente le condizioni perdute, in cui ciascuno vive. Vi sono ben 24 sonetti, divisi in due gruppi, “in vita” e “in morte”, che costituiscono una riflessione poetica sulla vita.

Nel primo gruppo si parla della zia in vita, ma nella sua condizione di vecchia donna ormai novantenne. Leggiamo pagina 62, dove si tocca una condizione umana ormai diffusa con l’allungarsi della vita umana.
”Povera vecchia, non trova più le stanze,
il suo letto, il bagno, la cucina:
ogni luogo per lei è una sentina
d’orrori, un labirinto disperante:

Anche qui il dolore si fa memoria e quindi poesia. Leggiamo ancora a pagina 63:
“Lei non è già più di questa terra
è quasi fatta passero o alberello,
la sua vita è trascorsa come ruscello,
che scrosciante precipita alla forra.”

E poi nel gruppo di sonetti “Alla morte”, il ricordo del rapporto vitale con la zia. Ma non si tratta di un mero ricordo affettivo e occasionale. Si susseguono ben diciotto sonetti, centrati su questa figura e il suo ricordo deiloro incontri saltuari, ma ancora più occasione di riflessioni e di emozioni sul senso della vita, sulle tragedie che la circondano, sugli amori e sui rapporti che la illuminano e la rendono accettabile e accessibile. Leggiamo l’inizio del sonetto a pag.72.
“Per lei sarebbe stata aspra sconfitta
avermi accanto al borgo in sua vecchiaia,
perché sognava per me ben altra vita,
che non quella di fare di me sua balia.”

Bisogna leggere tutti questi sonetti per ricostruire la storia tragica di questa amata zia che le era stata così vicina e avere un quadro completo delle tante riflessioni sulla vita della zia, che ha vissuto come un’ isola, ma apertasi alla nipote. Mi limiterò a leggere la parte finale di un sonetto, a pagina 77, perché ricordando la zia pone a confronto la condizione infernale dei viventi con quella forse consolata di chi è seppellito.
“Qui è amarezza, odio e scortesia,
là dove sei è pianto e forte duolo,
mestizia , lutto e miserere eterno;

lontana dal frenetico mio inferno ,
racconsolata sei, forse nel suolo,
e con chi stati, chiunque egli sia.”

Ma il libro non termina qui. Infatti si conclude in modo non inaspettato con una quindicina di sonetti intitolati “La tragedia dei giorni”, dove Francesca Farina parla più in generale di sé e della condizione umana, andando oltre i rapporti personali e famigliari. Queste poesie sono, in modo significativo, introdotte da versi di Kavafis, che dicono:
“In queste tenebrose camere, dove vivo
giorni grevi, di qua, di là mi aggiro
per trovare finestre..”
e conclude “Meglio non trovarle, forse.
Forse sarà la luce altra tortura.
Chi sa che cose nuove mostrerà”.

E Francesca Farina? Vi sono qui tanti sonetti complessi e conflittuali. Leggiamo a pag.94
“Tornando a casa adesso scopro il cielo
e le strade stellate dell’abisso:
quanto di me si strugge ora capisco,
ciò che rimane è lieve come gelo.”

E subito dopo, leggiamo a pagina 95, l’inizio di un sonetto dove la poeta parla proprio del senso e del significato dello scrivere nel corso della vita e dei ricordi.
“Sì, smemorare e ancora ricordare,
solcando della mente i foschi mari,
ottenebrata da ansie senza pari,
perdendosi in abissi e poi tornare!”

E infine, come previsto nella tragedia classica, c’è una poesia di conclusione, intitolata “Congedo” che certo manifesta una visione tragica della vita ancora da vivere, fino alla inevitabile morte. Ma non è qui presente una concezione nichilista e neppure una visione distruttiva dell’esistenza. No, la vita è una conquista passo passo della irrevocabile complessità dell’esistenza, degli indissolubili conflitti tra le tante parti di cui siamo fatti, del lato tragico sempre presente e che va accettato proprio per poter vivere veramente. La poesia è percorso necessario per poter vivere con più comprensione e con minore isolamento. Ma non esistono rimedi complessivi per evitare i tanti guai di cui è composta la vita di ciascuno.

Testo critico di Roberto Piperno in occasione della presentazione del libro di Francesca Farina ala Biblioteca Tortora, a Roma.

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