sabato 18 luglio 2009

"TRAGOEDIA" DI FRANCESCA FARINA NELLA CRITICA DI DOMENICO ALVINO

"Tragoedia", sonetti
di Francesca Farina (Editrice Zona 2008)

Sarà il caso o no di dire che il sonetto incipitario pone quella che per il De Sanctis era la situazione? Che qui sarebbe della poeta, o del suo essere, rimasto come sospeso, inadempiuto, essendo venuto meno il tocco demiurgico dell'amato che con un gesto, uno sguardo, appena un cenno di carezza, la riproduceva, anzi la produceva all'essere, a ripartire, o a partire ogni volta dal nulla, dalla sua bocca, che è sempre aperta sotto il nostro essere questo o quello. Sicché ora deve ricominciare, la vita deve riprendere a lavorarla, perché ridiventi, torni ad essere, o sia, quella che sempre è.
E con ciò s'è già detta un'operazione della poesia, e dunque sì valeva la pena di dirlo, ché mi pare si sia con ciò anche andati oltre l'immobilismo proprio della situazione, l'immobilismo poeticamente inerte nel quale la lasciava il critico irpino. Qui la situazione è divenuta strumento di poesia, ed inoltre anche mezzo, ambiente in cui diventano possibili altre operazioni di poesia.
Si veda, per esempio, subito nel sonetto primo (p. 15), l'ilicizzazione o materializzazione che la poesia è indotta a fare da un tecnema di accumulatio, vale a dire da un accumulo, nel di lui ventre, di cibi volgari, che procede, seguitandolo, da un altro accumulo che è invece di doni spirituali, come l'amore e l'amicizia, che vi si assimilano materializzandosi. Sicché tutto l'essere di lui è trasformato in ventre che si empie, gonfiandosi di materia avviata al degrado ultimo, senza che neppure appaia la possibilità redentiva che in casi simili è offerta dall'impiego nella fertilizzazione. È quanto gli consegue dall'avere abbandonato lei: con ciò essendo restata lei sospesa nel suo essere, ne viene che è sospeso lui da ogni benché minima utilità mondana.
Perché lei è la regina d'un regno, che è il regno della vita. Anche se ora è disfatta e piena di graffi come di rimpianti e nostalgie feroci, è la regina. Non una donna, una delle tante, come una volta si diceva, sedotte e abbandonate. È la regina tradita. Si ammanta infatti di orpelli, che la poesia trasforma in insegne regali. Si veda il sonetto quarto (p. 18), dove brevemente è tratteggiato il luogo dove sorge la sua casa: un balcone dà su un favoloso “cimitero degli elefanti”; poco oltre c'è la residenza di un ambasciatore, poi la casa di Ingrassia, che la schermatura delle finestre rendono misteriosa, e poi quella di Pasolini... è una reggia la sua casa, dice la poesia, dal momento che la regina vi trascorre le sue ore... Isolata in quelle stanze, vi trascorre il tempo chiuso dell'abbandono, offrendosi al martirio di trentine di giorni di spine di morti di dolori di ferite e di colpi, che nel sonetto seguente (p. 19) l'insistenza moltiplica per migliaia e milioni di migliaia. “Lontana e oscura”, “lacerata nella carne, nell'anima e nei sensi”, è come un Cristo avviato al Golgota che si trascina segnando la sua strada di stille di sangue, e seppellisce la sua regalità nell'abominio totale e inappellabile.
Eppure, è da lei che dilaga la vita, ed è lei che vi accudisce promuovendola fin con il canto di salmi, cospargendola di profumi, illuminandone i passi e riscaldandola nelle giornate spente, come dice nel sonetto ottavo (p. 22). Come può essere, come può essere che la si abbandoni, così, senza capire quale sprazzo di stella lei sarebbe stata, che sole, che dolce alba, che incendio di sospiri, che abbaglio di sereno? Si chiede questo nel sonetto nono (p. 23), come una sovrana datrice di vita dinanzi a un suddito che rifiuta la vita, che lei profonde con tanta abbondanza in grazia soltanto di uno sconfinato amore. Anche quando sembra che si umili dinanzi a lui, in realtà si riconosce in cose nelle quali rigermina la vita. Gli insegna, per esempio, come condursi con lei, così come s'insegna ai paggi un cerimoniale di corte. Ma l'insegnamento stesso, in sé e per sé, non è che un conferimento di esistenza tramite un nutrimento d'essere, simile, per intendersi, a una cura di calcio che fa lo scheletro, simile all'alimento dell'humus che fa il corpo delle piante. E che l'altro sia l'alumnus e il subditus, la poesia lo dice in quel dire di Francesca che lui le cede per scarsezza di forze (p. 24).
Anche quando prega, in realtà enuncia la sua potenza e maestà, come quando s'irrita per il fatto di non beccarlo mai « in piedi o prono » (p.34), o quando sogna di vederlo al mattino sorridente aspettare che lei si affacci, come i cortigiani attendono la regina (p. 35). Nel sonetto dodicesimo, in una serie di correlativi oggettivi la poesia proietta la sua condizione di donna devastata dall'oltraggio dell'abbandono. Ma da ognuno di quegli esseri nei quali s'immedesima (foresta, sangue, sole, luna, pioggia, vento, mani) è un'eccellenza naturale che concorre a costituire il dominio della vita. La poesia però scopre, specie nel suo « sangue che dilaga in ogni senso », quale sia la sua mira, e la indica nel porre sotto sotto in chiaro che è la di lui vita a protendersi dalla sua, e non l'inverso, come lui forse neanche crede e spera. L'ha sepolta semplicemente in una scura dimenticanza, senza sapere che così facendo ha sepolto sé in un vuoto esistenziale che sarà irreparabile fuori di lei, fuori della luce che emana dalla sua regalità (p. 27):
ma sappi che degli angeli è governo
il mio mattino, l'intera mia giornata,
e tu ne sei per sempre chiuso fuori.
dice nella chiusa. E difatti a poco a poco lei si chiude nel suo regale orgoglio (p. 36), e rimuove da ogni luogo la « traccia sozza » di lui, « l'orma di serpente », la sua velenosa bava di lumaca (p. 37). In questo mentre la poesia evidenzia una sorta di marcia delle armate regie verso l'esterno, all'inseguimento della bestia immonda fino a scacciarla definitivamente dai confini dell'impero; e il sonetto che conclude la sezione performa quel trionfo di regina guerriera verso il quale la poesia puntava la sua bussola. E lui è lì ridotto al poco e niente di una misera dipendenza, che lo incatena, lo fa brutto e lo atterra ai piedi di lei, la sovrana vittoriosa.
La sezione seguente, Familiares, che richiama gli epistolari familiari di una volta, in realtà si può dire che abbia come destinatario lei stessa. La poesia suggerisce infatti che i sonetti compongano davvero lettere che lei s'invia per raccontarsi, dei suoi, cose che non s'è mai raccontata, traendoseli a vista come degli eroi ignoti, eroi disconosciuti finora sin da lei. Ad incarnare un simile tipo di eroe è soprattutto il padre, che la poesia trae a vista come espressione delle rocce dei monti, di cui riporta la durezza aspra e l'inesausto battagliare che fanno gli alberi e i monti nella guerra che sostengono contro la violenza della natura. Prima che questa alla fine lo atterri, si cancella lui stesso in un amore selvaggio, e delicato insieme, prima alle sue bestie che fin da bambino sospinge ai pascoli con una cura guardinga e disperata, e poi ai suoi figli, che sgrida per raddrizzarli e indirizzarli fino a perdere la voce. Ma poi s'intimidisce innanzi alla figliola che studia al liceo con i figli dei signori, deve costringersi a domandarle un caffè, che lei gli rifiuta, procurando alla sua coscienza un rimorso acuto e tardivo, come ognuno ha tra noi verso padri e madri, e non lo confessa, e se lo trascina per la vita. E tuttavia questo padre dall'amore timido e furioso, alla di lei laurea fa una gran festa nel suo intimo, la poesia ci dice, festa che poi gli scolma fuori sotto forma di ubriacatura ridarella e canterina. E poi più. Svanito. Con le mani mozzate sparito sotterra. E questo sotterra è in lei, in Francesca, dice la poesia, come un uragano inesploso.
La madre viene su a vista da una memoria di carne, come una ferita mal rimarginata. È così che la lavora la poesia, dentro ed oltre le parole della poeta: come una madre del rifiuto, una madre disegnata di spalle ed oscurata entro un costume nero che la strappa via dalla figlia. Invano essa ne invoca il grembo e l'abbraccio. Lei glielo rifiuta. Tutto le rifiuta. Anche il cibo, che lei si abitua a non chiedere. È che la malasorte le ha consegnato una femmina in luogo del maschio che si aspettava. Ma, benché strano a dirsi, tutto questo la poesia – nonché le parole – volge in Francesca ad alimento di un amore filiale inesausto, anziché di tenace odio, un amore incolmato ed incolmabile, che trema all'idea della di sua dipartita, quando si scioglierà in gigli e viole tutto quell'amato corpo, e quel seno sempre invano agognato.
Di una zia Z. rievoca la figura e la vita l'ultimo lembo delle Familiares, suddiviso petrarchescamente in morte e in vita di lei. Ne viene una figura non meno enigmatica di quella materna, d'una durezza anch'essa prodotta dall'aspra natura isolana. Riottosa con se stessa più che col mondo – con il quale pure fu « crudele belva » (p. 71 v. 13) – la zia, tolto un affetto operoso nutrito per la giovane nipote, ha vissuto una vita chiusa in sé, come un'oscura isola posta nella distesa delle onde tempestose che le si agitano intorno. E riottosa muore in una solitudine per di più offuscata da mali definitivi e impietosi, che lei sopporta con una burbanza disfatta, più che quietamente rassegnata. Ed anche a lei Francesca apre un sepolcro nel suo cuore, la poesia dice, sì che a poco a poco questo cuore è allestito come un cimitero ove lei si dà d'attorno con sue cure alle piccole tombe, cure non prive di un affanno turbinoso, che le viene da rimpianti e scrupoli che là stesso cerca invano di seppellire.
Nell'ultima sezione, La tragedia dei giorni, è allestita una storia di lei come cultrice di poesia in attrito con le disavventure del giorno, le contrarietà e i dissapori. L'operatività poetica dà qualche buona prova in singole soluzioni tecnematiche dove compie felici operazioni. Come nel sonetto ottavo, in cui spicca il distico incipitario («Tornando a casa adesso scopro il cielo/ e le strade stellate dell'abisso») cui consegue una splendida Op di introiectio o internamento, per cui il cielo viene posto dentro, nel fondo della sua anima, con le conseguenze facilmente immaginabili; e più oltre (v. 10), la nominazione della città come «schiera di vermi e nervi nella notte», cui corrisponde una Op di corporeizzazione della notte stessa, come di deforme animale dalla vita verminosa e malfattrice. Altrettanto suggestivo è il sonetto dodicesimo, che è come un orecchio teso alle voci notturne, che poi hanno varia risonanza dentro di lei, per grazia di poesia. Ma sul piano macrotestuale soprattutto, l'operatività poetica soffre di alquanta stanchezza, e dunque non ne tocchiamo che poco, questo accenno solo di dire che all'ingorgo di creazione e intralci quotidiani la poesia intreccia la complessa problematica della senectus, che comincia a muovere il suo passo.
Resta ancora da dire che procedendo verso fine, più s'infoltiscono certe forzature, pur presenti per l'innanzi qua e là, stonature che sono il portato d'una ricerca metrica e rimica a poco a poco sempre meno redente ad un acquisto in fantasia e in compostezza ritmico musicale, come capita ai poeti grandi. Se sia o no compiuto il contrappeso che vi appone la poesia con la sua operatività, il critico non dice, lo lascia ai lettori da dire, perché abbiano un daffare anche loro, e non l'abbia lui solo.
Domenico Alvino

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