lunedì 9 giugno 2008

Per "Le stanze del cielo" di Paolo Ruffilli.

Per “Le stanze del cielo” di Paolo Ruffilli.

“Fratelli umani, che dopo noi verrete,
non abbiate contro noi sì duro il cuore,
ché se pietà di noi poveri avrete,
ne avrà più presto di voi il Signore…”

Tale l’ 'incipit' dolente del lamento dell’impiccato, che al vento triste della stagione invernale si agita sull’albero della propria morte, nella “Ballata degli impiccati” di François Villon, invocando misericordia dai “fratelli umani”. Con la stessa 'pietas', quel misto di pietà e com-passione alla maniera di Leopardi, si china su questa umanità dolente Paolo Ruffilli, nella sua raccolta poetica “Le stanze del cielo”. Non diversamente passiamo, con le strazianti poesie della prima parte della raccolta di Paolo Ruffilli, da questi morti alla terra ai morti al mondo, ai reclusi in stanze senza cielo, mentre il loro cielo ideale non ha stanze, non ha celle, non ha chiavistelli, non ha clangore di sbarre, non ha nulla dell’universo cieco del “carcere di massima sicurezza”, come lo definisce la sicumera degli uomini, i “fratelli non umani” – forse così potremmo chiamarli – che poco si curano dei loro prigionieri. Con lo stesso tono alto e solenne, il condannato, che si fa coro tragico, interpretando il non detto dei molti, celati compagni, proferisce il suo infinito, rassegnato monologo, come sapendo che non riceverà alcuna risposta: il monologo infinito di un uomo disperato, dilaniato, un emarginato, uno sradicato.
Ruffilli si cala nel pozzo della solitudine di quest’uomo senza nome e senza volto, un 'inconnu' che riassume in sé la storia dei dispersi senza storia e si fa voce per loro, dà loro la parola incerta, tremante, mai accusatoria, quasi sommessa, quasi con un sottinteso di scuse, una richiesta d’ascolto umile, sussurrata su aride labbra che vogliono dire e non dire al tempo stesso, per il pudore che fa quasi reticente il parlante, il quale accenna appena all’abissale non-vita, nella prigione che sembra eterna, per poi ritrarsi negli ultimi due versi di ciascuna delle brevi poesie, che chiudono ermeticamente, a suggello – spioncino metallico, calato a fugare ogni tentativo di visibilità – l’angosciante e angosciato tentativo di dire.
I versi si scandiscono (e candiscono, abbacinanti, a illuminare la pagina, che pare emergere dalle atmosfere gelide della cella) contratti, non nella forma distesa dei decasillabi o degli endecasillabi di Villon, anzi rattrappiti per eccesso di ritegno, facendosi quasi emistichi, nella forma prediletta da Ruffilli, uno stentato fraseggio, modulato sull’empito del cuore, come un’extrasistole, mai del tutto aperto a denunciare ogni senso; al contrario, frenato dall’eccessivo bisogno di denuncia, come a rintuzzare troppe parole che urgono e intaserebbero il discorso. Nella poesia in limine, dall’apparente buonismo dei carcerieri (carcerati anch’essi, ma senza la stessa coscienza), che intervengono per dire la loro, aprendo la dolorosa recita, sulla condizione dei condannati, dannati a un inferno senza metafora, si passa alla risposta tranchant degli stessi, che respingono con un solo, lancinante verso, ogni tentativo di banalizzazione della loro condizione. La vera condanna è l’ “inerzia”, “il fresco della vita/già seccato e scolorito”, “la fiacca del malato”, la “direzione/ senza più ritorno”, il “sopravvivere/ a te stesso/sordo e muto/ a tutto il resto”. Le piccole cose del giorno diventano essenziali, i piccoli gesti necessari e vitali, le piccole immagini soli accecanti, mentre una montagna di dolore sembra seppellire ogni tentativo di sogno, di scavare anche soltanto nella mente gallerie, vie di fuga. Il tempo poi si rivela finalmente e tragicamente in tutta la sua inafferrabilità e indeterminatezza, “eternità presente”, mentre le immagini del mondo di fuori irrompono tra i sogni, più lancinanti del reale, oramai più lontano di ogni dove. “Inferno” è la parola che più di ogni altra spicca tra i versi, mentre la “fame della vita” lascia senza respiro, insieme alla nostalgia dell’amore, delle parole dei vivi, o del silenzio che protegge dal frastuono della terra. I “tetri cortili/dalle altissime mura” evocano il dipinto di Van Gogh, quella tragica “Ronda dei carcerati”, in cui il pittore profuse l’inenarrabile strazio dell’esistenza dei morti viventi, “in marcia collettiva/di mezz’ora”, dietro i colori graffiati dei mattoni, oltre cui si innalzano quasi indistinte due piccolissime farfalle, che si librano, e si liberano, ondeggiando verso un cielo che non si vede, ma c’è, perché comunque c’è un cielo, anche nel cieco della più oscura detenzione.

“Non c’è servizio religioso il giorno
In cui impiccano un uomo:
Il cuore del Cappellano è troppo triste,
O il suo volto è troppo pallido,
Oppure nei suoi occhi si legge quello
Che nessuno dovrebbe vedere.

Così ci tennero chiusi fino quasi mezzogiorno,
E poi suonarono la campana,
E i secondini con le loro chiavi tintinnanti
Aprirono ogni cella in ascolto,
E giù per la scala di ferro scendemmo,
Ciascuno dal suo inferno separato…”

Sono le quartine iniziali della “Ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde, che sperimentò l’atroce baratro della reclusione, per una condanna tanto insensata quanto ingiusta. Dalla “Ballata” di Villon, alla “Ballata” di Wilde non sono passati che quattrocento anni, appena un soffio nel tempo della Storia, un’eternità nella vita degli uomini, che non hanno imparato intanto a fare a meno di colpire col sangue il sangue dei “fratelli umani”. Ancora, nel tempo che viviamo, gli uomini non hanno imparato la pietà e così Paolo Ruffilli si fa voce degli ultimi, il triste “gregge/ rinchiuso nel recinto” che ha “un desiderio ardente/del fuori a tutti i costi/fino alla follia”, scava nelle vite nascoste, fa dire il ricordo del momento in cui avvenne “la colpa”, “l’inutile delitto”, quello “spartiacque” che ha deturpato per sempre il giorno, destinando al fondo del mondo il reietto. La Poesia è un risarcimento a tanta pena, la parola di chi, afasico nella lingua e nei sentimenti, non ha parola…
Non diversamente rifiutato, spazzato via dalla società, relegato in invisibili bassifondi, il “drogato”, l’uomo dalla “vita tagliata”, che non per curiosità, né per noia è precipitato, ma per scelta, sapendo bene di guadagnare un non differente abisso, guardando in faccia la sua vita “usa e getta”, senza tuttavia sfuggire a se stesso, in fuga ma senza incoscienza, anzi con la sapienza di chi insegue il vuoto assoluto, una specie di destino cercato, una “notte diversa/ da tutte le altre/notti al mondo”, “l’abisso inabissato/riempito dal suo crollo”. Senza mai nominare l’oggetto oscuro del desiderio, che pure è eternamente presente, una “lei” che si fa fame e sete, carne e sangue dell’uomo, la droga “ti si ficca dentro il corpo” e tutto si spegne, al confronto con la sua seducente luminosità, ogni cosa rimane per sempre sullo sfondo, nella noia sovrastante. Vero amore per il soccombente, amante senza scampo, inseguita come una donna troppo a lungo desiderata, ma al tempo stesso roba infetta, quasi una lebbra dell’anima, tanto da sentirsi senza di lei “squartato” in ogni parte del corpo, la droga innominata è quasi un male necessario, morbo inguaribile, che da un grammo di piacere regala “quintali di dolore/di vomito e di noia”. Ancora una volta, Ruffilli si fa voce del reietto, senza mai giudicare, né condannare, chinandosi a registrare con dolente partecipazione la struggente confessione, il monologo senza ragione come detto da un angolo abissale, da fuori del mondo ancora come nel carcerato, questo racchiuso tra mura concrete, quello tra mura invisibili ma altrettanto solide, affogato dentro una passione artificiale che dà una diversa identità e “ti fa credere onnipotente”, quando si nutre delle bugie e del niente. Fino alla chiusa lancinante, alla voglia di fuga, specialmente dall’infinita solitudine alla quale è destinato l’uomo dalla “vita tagliata”, che non riesce a smettere da solo, di drogarsi e di vivere…
In un mondo in cui sembra che la pietà sia morta, in questo nostro triste universo senza pace, che getta via i rifiuti come gli uomini, Ruffilli sembra voler recuperare proprio questi relitti umani e dare loro una dignità sconosciuta, dire per loro una preghiera laica, recitare l’estrema litania salvifica, la Poesia.


(Francesca Farina)

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