lunedì 5 luglio 2010

"IPERFETAZIONI" DI MARCO PALLADINI (EDITRICE ZONA, 2009)

“Iperfetazioni”di Marco Palladini, Editrice Zona, 2009.


Nella cifra dell’ironia, spinta sovente verso l’abisso sdrucciolevole del sarcasmo (dal quale recedere è impresa ardua, almeno in retorica e in poesia) e nella struttura ampia, distesa, della prosa poetica (ovvero della poesia narrativa: poesie che sono quasi piccole prolusioni o apologie, o al contrario invettive, vere e proprie catilinarie amare), questi testi di Palladini delle “Iperfetazioni”, come a intendere subappalti di definizioni, costruzioni di costruzioni di parole, un LEGO di sintagmi, un puzzle di metafore e allegorie, in soliloquio doloroso e drammatico, dalla cui disperazione l’autore si scansa per eccesso di pudore, per evitare di mettere in scena i propri sentimenti più profondi - come nella tragedia greca si evita di mostrare in scena il cadavere dell’eroe, per evitare l’eccesso di commozione – salvandosi con lo scatto della battuta feroce, talvolta respingendo con un colpo di distico a rima baciata lo sprofondare nella palude dell’auto-commiserazione o dell’auto-compiacimento masochistico, di fronte a sconfitte, umiliazioni, delusioni della storia, piccola e personale, o della Storia, quella che finisce sui libri di scuola.
Disillusione privata e pubblica, dunque, declinata in allitterazioni, bisticci e/o giochi di parole, metri distesi, esasperati e cantanti, o dissonanti volutamente in figure retoriche ricche e voluttuose, dove le immagini audacemente accostate producono, come nello sfregamento di metalli diversi, da cui si levano stridendo rossastre faville, sciami di parole, spasmodicamente reiterate, quasi a ribadire idee e ideologie altrimenti incomprese o incomprensibili.
Nelle “Ricognizioni private”, la prima delle tre sezioni in cui si articola il volume, preceduto da una sovrabbondanza di citazioni, che vanno da Gadamer, a Genette, ai CCCP, da Manganelli, a Brecht, a Dante (“Ahi serva Italia…”, altissima invettiva, mai tanto adatta come a questi nostri tristissimi tempi) - tutti “padri”, presumiamo, dell’autore, in cui si è riconosciuto e si riconosce ancora, probabilmente – il poeta sembra voler dire tutto di sé, di sé poeta e della Poesia, sfatandone però ogni luogo comune, denudandone i più vieti paludamenti, denunciandone i più laidi vizi, irridendo acerbamente (una piega di “pietas” gli deforma sempre le labbra, strette a pronunciare il proprio profetico verbo) come COLUI-CHE-SA, poiché ha vissuto ogni aspetto della vita, ne conosce ogni risvolto, ne ha percorso i sentieri più malagevoli, è caduto mille volte e mille volte si è rialzato ed ora addita a chi verrà dopo di lui le difficoltà di cui è lastricata la strada. Volgendosi però indietro, il poeta sembra aver orrore di nostalgici ripensamenti e le sue “furibonde invettive” si rivelano come la vera forza della sua personale poetica.
La delusione della Storia si fa alta poesia, denuncia senza cedimenti al patetico, dignitosa apostrofe al mondo, declamata con un lessico “novissimo” (è agevole rintracciarvi i poeti degli anni Sessanta del Novecento), straordinariamente “moderno” o meglio “contemporaneo”, mentre il sarcasmo diviene ancora più audace nella seconda sezione, “Interzone”, dove la spinta allusiva della parola si fa dirompente, sfiorando il comico della grande tradizione (non si stenta a rivedervi Rabelais o il Folengo), nell’accumulo di materiali extra-vaganti, nelle zeppe, negli scarti o scambi di lettere e/o parole, nella coazione a ripetere, nell’accostamento o rovesciamento dei sinonimi o omonimi, che fanno scaturire la voglia di sottrarre, aggiungere e/o correggere il detto, col sorriso o il riso sempre in agguato, quando non manca il verso escrementizio: là ci si diverte a leggere, come da bambini a dire le parolacce, a nominare l’innominabile, a usare il “K” come negli anni Settanta (buono per Kissinger, ma anche per il nostro Kossiga), a riesumare vecchi gruppi musicali coprolalici, a rievocare vecchi sintagmi neo-romantici, nel perenne spaesamento o straniamento provocato dall’inusitato accostamento di mode e modi di diverso e recente/lontanissimo tempo, cedendo talvolta all’inserto di sintagmi in lingua straniera o termini di nuovo conio.
Quando ci pare di dover finire, per sovrabbondanza di senso, cosa che ci lascia grati quanto stremati dall’arricchimento incredibile di immagini e di sensi, comincia l’ultima straziante sezione, “Pubbliche incursioni”, in cui lo sguardo dolente del poeta si sofferma a denunciare l’orrore della Storia più vicina a noi, dove la presenza delle bombe è più concreta e vera dell’assenza di Dio, ogni cosa e creatura sono mercificate e fornite di logo (pur nelle dichiarazioni del NO LOGO), mentre invano il poeta continua a mascherare di ironia l’immenso dolore che lo travolge di fronte ai travolgimenti della Cronaca, in assenza totale di una parola salvifica, se non questa sua, poetica.

(Francesca Farina)

Nessun commento: