lunedì 3 marzo 2008

"Le stanze del cielo" di Paolo Ruffilli

Ho qui sulla mia scrivania un libro di poesie straordinario (veramente fuori dell'ordinario...)
"Le stanze del cielo" di Paolo Ruffilli, poeta, critico e scrittore troppo noto perché io ne possa dire qui qualcosa. Edito da Marsilio, il volume si compone del monologo perturbato e straziante di un uomo rinchiuso in carcere, condizione più tremenda dell'inferno stesso, inferno nell'inferno, carcere nel carcere della vita...Mi ripropongo una critica esaustiva a breve, intanto lo consiglio a tutti gli amici poeti. e posto qui un testo:

" A volte basta una canzone
un dito di più di vino
o la scena inaspettata
che va in televisione
ed ecco che sentendo
la vita senza schermi
nel tuo crudo e
a nervi ormai scoperti
non ne sopporti
la dilagante sua energia
il suo diluvio di promesse
e di aperture...
e non resisti più di qua
senza poter scappare via".

3 commenti:

  1. Le stanze celesti di Paolo Ruffilli

    La poesia di Ruffilli ha il celeste privilegio di muoversi simultaneamente nel microcosmo delle quotidiane vicende degli uomini, delle loro fin troppo visibili miserie e nel macrocosmo delle grandi, invisibili leggi che governano l’infinità dell’universo. Il mistero di questa felice ubiquità si esplicita attraverso una sorta di assenza della parola o, meglio, attraverso una parola scarna e sfibrata che rimanda, anche attraverso la magia della sua sottile e disarticolata musicalità, alla essenzialità del vuoto, alla necessità semantica del non-essere. In poesia può avvenire ciò che la logica costituzionalmente nega: la sincronica identità dei contrari. “Le parole vere suonano al contrario” suggerisce un’antichissima massima del Tao. E Ruffilli tiene in gran conto La Regola Celeste, quell’antica ricerca filosofica orientale che ha postulato la necessità e la concreta contemporaneità dell’Essere e del Non-Essere, in una prospettiva unitaria e dinamica delle realtà visibili ed invisibili in gran parte sconosciuta in Occidente. Ne deriva per il singolo individuo la possibilità di una partecipazione a tutti gli accadimenti umani caratterizzata da un distacco al tempo stesso non imperturbabile e non eccessivamente commosso. Una distanza frapposta tra il sé e il mondo non tanto per meglio comprendere e penetrare l’esterno, quanto per riservarsi la possibilità di tendere alla maggior conoscenza possibile di sé.”Senza uscire dalla porta / si conosce il mondo. / Senza affacciarsi alla finestra / si vede la Via del cielo. / Più lontano si va e meno si sa. / Perciò l’uomo saggio / conosce senza viaggiare, / comprende senza guardare / e agisce senza fare.” (Cap. 47 de Il Libro del Tao) E’ dentro questa concezione filosofica, teorica e pratica a un tempo, che la poesia di Ruffilli sboccia spontaneamente alla visibilità dell’essere. Le scelte metriche sembrano assecondare convenientemente questa vocazione misteriosamente binaria e unitaria della poesia: il verso breve, talvolta persino disillabo, si snoda come una immaginaria sequenza nucleica – si può pensare alla catena del DNA – che ci fornisce informazioni genetiche sul dicibile e sull’ineffabile. Le parole isolate, che Ruffilli ama immaginare come “oggetti vaganti”, sonori e filamentosi che rimandano incessantemente, per l’accavallarsi di echi musicali e semantici, ad una “realtà di lontananza” testimoniano di una contraddizione a un tempo umana e celeste, intima, personale ed universale. Una contraddizione naturale che attraverso la musicale levità del pensiero poetante può ricomporsi in una naturale unità. La sostanziale gratuità – e quindi grazia – dell’esistere, dell’esserci e del non-esserci, impone la scelta della leggerezza, di una sapiente, ironica vacuità. “Io sottoscrivo – ha detto Ruffilli – l’elogio necessario della frivolezza, che è sempre stata la virtù degli ingegni”. Di qui anche le sue preferenze estetiche e le sue ascendenze letterarie. Se la tradizione orientale non ha mai separato poesia, filosofia e musica qualcosa di simile è accaduto anche in Occidente. Il libretto d’opera infatti può essere visto come “la soluzione dei contrasti intorno ai generi perché, per esigenze di copione, l’opera dev’essere insieme una commedia, una serie di dialoghi, una successione di descrizioni, una successione di affondi lirici e di parti cantabili che devono suscitare una serie di riscontri emozionali, devono realizzare degli echi più sotterranei”. Un’ariosa cantabilità mozartiana o rossiniana che per liberarsi deve però essere scesa nel ventre della terra a captare gli echi più sotterranei. Una dolorosa discesa agli inferi speculare alla trasparente, gioiosa vitalità dei versi. E’ esattamente quello che accade in quest’ultimo libro di Ruffilli Le stanze del cielo, già nel titolo uno e binario, oscuro e luminoso, dolente e felice. E’ stato già detto che la poesia di Ruffilli avrebbe i caratteri della narrazione, una sorta di asciutto “romanzo familiare” come scrisse Raboni per Camera oscura e come ci ricorda Alfredo Giuliani nella sua prefazione a Le stanze del cielo. Sarei tentato di dire che si tratta di narrazioni senza fatti perché la materialità della storia si fa tutta processo interiore e, contemporaneamente, l’intelligenza, l’energia spirituale, si materializza nel suono significante della parola. I fatti di Le stanze del cielo sono quelli dolorosi e disperanti dell’universo carcerario: Grate e cancelli da ogni / parte, intorno, tetri cortili / dalle altissime mura. E già si sente che queste mura altissime sono divenute barriere dell’anima. Eppure le parole della tradizione giudaico-cristiana – perdono, salvezza, redenzione, speranza ecc. – non sono pronunciate. Infatti è solo la coscienza minuziosa di se stessi e del mondo a muovere e guidare / i passi ignoti. Vita tagliata, la lirica che apre l’ultima sezione del libro che porta il titolo La sete, il desiderio è una sorta di altissimo testamento spirituale nella lacerante affermazione della corrispondenza del sé con il mondo: Il mondo ed io, / corrispondenze esatte: / pietra senza labbro / e labbra senza verbo, / per quanto inseguo / e cerco. Certo l’immagine del taglio – ho guardato in faccia, / tagliata, la mia vita – sembra contraddire la metafora per eccellenza proposta dal Taoismo per significare l’eterno fluire della vita universale ed individuale: l’acqua, che non può essere tagliata e nella quale “si ritrova un modello di quella imparzialità che costituisce la bontà superiore, cioè quella forza che non si sforza e che consente a ogni essere di seguire per intero la propria natura”
    Paolo Ottaviani

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  2. Ringrazio Paolo Ottaviani per l'esauriente commento, quasi una recensione critica, ampia e ben articoltata. Aspetto altri scritti su questo dolente libro di Paolo Ruffilli.

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  3. Paolo Ruffilli torna, dopo l’alto esito de “La gioia e il lutto” e a sette anni da quell’evento, con “Le stanze del cielo” (Marsilio Editori - Venezia, 2008).
    La nuova raccolta persegue e riplasma la struttura poematica che caratterizzò il libro precedente in una consonanza tematica bene evidenziata da Alfredo Giuliani in prefazione: “Quella stessa inclinazione a oggettivare i dati soggettivi… rende capace Ruffilli di calarsi nella soggettività degli altri, da poeta che è anche narratore. Quello che accade con le molteplici voci di La gioia e il lutto, accade anche con la mutevole voce recitante di Le stanze del cielo e con quella esaltata e sconfitta di La sete, il desiderio, l’altra sezione del nuovo libro che conduce il lettore in due territori a dir poco inconsueti per la poesia: lo spazio concentrazionario “esterno” della prigione e quello “interno” della tossicodipendenza, in entrambi i casi dietro all’ossessione della perdita della libertà.”
    Pertanto Ruffilli, viene costruendo anche un percorso di decantazione della mitologia del linguaggio. L’universo si cangia in un’immagine ante - mitica dove l’Io si de - termina in una voluntas di introiettamento nelle plaghe del Desiderio. Lo ’strappo’ dall’idillio lascia il luogo del rimpianto alla formula paratattica che si può tradurre a sua volta in formula tri - logica: “Sogna, Desidera, Realizza”. Un percorso mai del tutto immune da pericoli e agguati poiché l’approccio al Desiderio produttivo comporta l’alto rischio dello smarrimento di un’identità composta di più codici strutturati nel corso della Storia, dell’Etica e della Morale. Non a caso tutto ciò che si offre come linea di fuga ai controlli dello storicismo e dei nuclei precostituiti desta e desterà sempre ragioni di sospetto (E’ qui che, dove niente/accade, il tempo/è senza essere/mai stato,/un’attesa senza luce/e senza fine./Solo chi sta/nel cuore dell’inferno/sa cosa sia/l’eternità presente,/dannato nell’oscurità/più fonda,/un guanto rovesciato/nel suo interno.” E’ qui - pag. 31).
    Dice ancora Giuliani: “A Ruffilli poeta interessano tutti gli aspetti della vita e in particolare quelli segnati dalla sofferenza e dal male (il male fisico e il male di vivere)… E, per misurarsi con il Male, usa i suoi mezzi di sempre: il passo felpato e breve, un partecipe distacco, la cantabilità sommessa e antilirica dal ritmo sincopato. Soprattutto non si lascia condizionare dall’apparenza dei fatti, perché la realtà è sempre diversa da quello che appare, anche dentro le celle di un carcere…”. In questi atti di ‘immobile erranza’, antitetici alla sublimazione del ‘ricordo’, Ruffilli proietta la ‘memoria’ con alternanza centrifuga privilegiando il dato magico originario e stigmatizzando il carattere evocativo della lingua. Desiderio e Fuga non sono da intendersi quale repentino di/stacco dall’oggetto vissuto in termini conflittuali (eternità - presente), ma sono da porre nella elaborazione antianalogica di cui Paolo si serve ai fini della dissipazione di un’architettura del Senso (nelle componenti espressive ed esistenziali): l’affrancamento dal possibile mythos si manifesta attraverso la rinuncia - rifiuto della metalinguistica sacrale configurata finalmente alla demitizzazione ‘linguistica’ in favore di una funzione di rapporto con la Realtà.
    Ruffilli, più per aderenza alla memoria che non per analogia, adotta stilemi verbali evocati con la fisiologia dell’immaginazione.

    da Le stanze del cielo


    "Ordine"

    Grate e cancelli da ogni
    parte, intorno, tetri cortili
    dalle altissime mura.
    Ovunque regna
    un ordine di cose
    che qui è del tutto inusuale,
    spazzato e ripulito
    eppure in abbandono,
    insieme ligio e duro.
    L’odore di una gabbia
    contro il muro:
    muffa e colla, dentro,
    umido e sudore.
    Detenuto scelto
    L’effetto è che
    mi sento addosso
    la fiacca del malato
    e sono incerto
    e lento, le giunture
    piene di piombo,
    stento pure a fare
    da spettatore, qua,
    dentro la gabbia.
    Un detenuto scelto
    (la sua condotta buona
    è, spesso, la facciata
    da marionetta
    di chi nasconde
    la sua disperazione)
    occhi di vetro e
    mani che si allungano
    a caso da una parte
    e dall’altra
    a riordinare carte
    di una improbabile
    cercata verità,
    nell’attesa che
    le cose scritte
    diventino realtà.


    "Prigione"

    Il tavolo e la sedia,
    il piccolo scaffale
    con pochi libri addosso
    e la finestra sul cortile
    dove è in corso
    già la passeggiata
    d’aria regolamentare:
    pochi per volta
    in marcia collettiva
    di mezz’ora.
    …che tu respiri
    e mordi, inghiotti
    e digerisci,
    per sopravvivere
    a te stesso
    sordo e muto
    a tutto il resto,
    allo stato attuale
    delle cose,
    confuso e arreso
    chiuso qua dentro
    rifattoti animale.


    "Evasione"

    Che sogno è questo
    di fare un buco
    tanto largo che, se vuoi,
    ci puoi passare
    calarti giù
    da venti metri
    usando corde
    sottratte chissà dove
    poco alla volta…
    Da qui vedo una casa
    là di fronte
    sulla curva del paese
    e un albero fiorito
    che spicca per colore
    sulla facciata in ombra.
    Quel pesco in fiore
    e il suo tornante rifiorire
    che non avevo
    mai considerato
    mentre ero fuori
    è il simbolo
    di quello che mi manca
    e che ho perduto.

    da La sete, il desiderio
    (Le stanze del cielo)


    "Vita tagliata"

    Non fu curiosità
    e non fu noia
    la cosa che mi spinse
    e mi ha smarrito…
    fu anzi la coscienza
    minuziosa
    di me e del mondo
    a muovere e guidare
    i passi ignoti
    del mio precipitare.
    Il mondo ed io,
    corrispondenze esatte:
    pietra senza labbro
    e labbra senza verbo,
    per quanto inseguo
    e cerco.
    Più che fuggire
    gli sono andato
    incontro,
    ma niente ho mai
    subito o abbandonato.
    Ho sempre scelto,
    e ho attaccato,
    per ultimo me stesso…
    né rinunciato affatto.
    Ho scelto e amato,
    sbagliando, sì,
    e avendola aggredita,
    ho guardato in faccia,
    tagliata, la mia vita.


    "Fuga"

    Ma non perché
    incompreso
    e non amato,
    debole forse
    non vittima però,
    estraneo a tutto
    e di sicuro fuggitivo,
    uno che sente
    l’ebbrezza di scappare
    verso il vuoto,
    tra le braccia
    del suo niente.
    Per vivere da solo,
    per vivere di lei
    lasciando dietro a sé
    il deserto,
    l’anima in cambio
    della sua luce
    intermittente
    in campo aperto.
    Pallido evanescente
    come uno spettro,
    il buio negli occhi
    e il suono del silenzio
    dentro la mente.


    "Notte"

    O notte mia diversa
    da tutte le altre
    notti al mondo,
    notte eternamente
    luminosa
    nella sua chiusa
    fulminante assenza,
    canto e armonia
    che alita dentro
    il tuo silenzio,
    respiro che si tende
    e gonfia all’infinito:
    l’essere intero
    non più diminuito,
    l’abisso inabissato
    riempito dal suo crollo.
    Senza di lei
    la sete, il desiderio:
    un vuoto più profondo
    di tutto il pieno
    vomitato giù
    fuori dal mondo.
    Scavato con l’ago e
    penetrato in carne,
    dentro la vena
    a risucchiarne il sangue
    e poi di nuovo
    che scivoli leggero
    e che accarezzi i nervi
    navigando sopra
    col suo vapore lento
    verso il cervello:
    odore di un odore
    eterno,
    in piena fioritura
    su cui di colpo
    precipita l’inverno.

    Non oggetto “letterario”, dunque, e non acquiescenza ideologico-canonica basata su manierismi laici o trascendenti, ma lotta fra opposizioni inconciliabili (il mito ’storicistico e il mito ‘Io’) in reciproco annullamento, e che non hanno conseguentemente possibilità di sintesi.
    Si delinea la morte del Tempo e del Ricordo senza timor panico di horror vacui, trascinando con sé il soggetto oltre le stantìe epigrafi sulla ‘Morte di Dio e del Padre’, oltre l’esaltazione del Rimpianto nel senso che Barthes attribuisce a Bataille, poiché il “referente” dell’Oblio, come punto assiomatico di un passato-terra di nessuno, si impone come pieno ontologico altrettanto esiziale ad un Io dissacrato ed esautorato della sua funzione di soggetto sovrano e perduto nelle sue teleologiche sovrabbondanze rappresentative.
    Non vi è visione più realistica, in Ruffilli, di questo suo costruire il Reale d’alterità, di questo suo immaginare, come suggerirebbe Wittgenstein, “forme di vita azzerando la storia”.


    Mirko Servetti

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